lunedì 23 novembre 2020
Il ricordo più forte e struggente che ho del terremoto ha gli occhi tristi di una ragazza irpina. Avrà avuto trent'anni, forse meno, ma il dolore e l'improvvisa solitudine invecchiano in fretta...
Io, volontario e quei pullmini della Caritas carichi di buona volontà

Ansa archivio

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Il ricordo più forte e struggente che ho del terremoto ha gli occhi tristi di una ragazza irpina. Avrà avuto trent'anni, forse anche meno, ma il dolore e l'improvvisa solitudine invecchiano in fretta. Ma lo sguardo era quello fiero che hanno le donne delle aree montane del Sud. La incontrai pochi giorni dopo il nostro arrivo nel "cratere" del sisma.

Eravamo giunti il 28 novembre, cinque giorni dopo la terribile scossa. L'avevamo sentita anche a Roma e non ci avevamo pensato due volte. Non potevamo stare fermi di fronte a quell'urlo "fate presto!". Il gruppo scout, i gruppi della parrocchia San Giuda Taddeo, alcuni colleghi dell'università. In pochi giorni avevamo messo in piedi la nostra piccola struttura. Le medicine erano già pronte (da anni le raccoglievamo per inviarle in alcune missioni africane). Per gli abiti e i viveri bastò il tam tam di quartiere e la parrocchia venne invasa. Eravamo pronti.

Con noi anche due medici, Umberto Accettella, primario al Policlinico Umberto I e volontario parrocchiale, e mio cugino Augusto Rovigatti, scout come me. Serviva solo una "bandiera" sotto la quale combattere la nostra "buona battaglia". Ce la diede don Luigi Di Liegro, fondatore e direttore della Caritas romana, col quale collaboravamo da anni. E partimmo così, cinque pullmini con le "insegne" della Caritas diocesana stracarichi di scatoloni, di tanta buona volontà e di voglia di sporcarci le mani.

Il primo impatto fu di quelli che non dimentichi. Dolore e caos. Sant'Angelo dei Lombardi e l'odore della morte. Un odore penetrante, dolciastro e nauseante, che non ci abbandonerà per tutto il tempo e che ancora oggi resta in modo indelebile impresso nella memoria. In tutti quelli che sono stati lì in quei giorni. Un odore illuminato dalle fotoelettriche, che rischiaravano a giorno la spettrale immagine dell'ospedale accartocciato su se stesso, modernissimo eppure trasformato in un'enorme fossa comune. Così come alcune villette, tutte cemento (dis)armato, il cemento della camorra e della corruzione, cadute come un castello di carte, con a fianco una catasta di casse da morto.

Arrivammo di notte e immediatamente ci scontrammo col disordine e la confusione. "Dove ci mettiamo?", chiedemmo al centro di coordinamento. "Dove volete", fu la risposta distratta. Era evidente che lì, nel cuore del "cratere", nei grossi centri, c'era poco da fare. Troppa gente, troppa roba. Scegliemmo così, come campo base, un paesino al margine della zona più colpita, Montemiletto, appoggiandoci alla stazione dei Carabinieri. Da lì, ogni mattina, partivamo per cercare i dimenticati, i trascurati, i più soli. Case isolate nelle campagne, piccoli borghi di montagna. Duecento chilometri al giorno si strade in parte franate, sotto i colpi del sisma, strettissime. Sotto la pioggia e la neve. Ogni casa una sosta. Due chiacchiere, magari un caffè o un bicchiere di vino, quel poco salvato dalle scosse. Portando viveri e abiti, per chi aveva perso tutto, ma anche le pasticche antitifiche che ci era stato chiesto di distribuire. E girando tra luoghi splendidi e sconosciuti, arrivammo un giorno vicini a quella casa. Era seminascosta da un'alta siepe, di quelle lunghe e intricate, che un tempo dividevano geometricamente le nostre campagne. Una casa che non era più una casa. Un angolo era completamente crollato e l'interno era imploso, svuotato. A fianco una piccola roulotte. All'interno quella ragazza, vestita di nero. Era rimasta sola.

E quegli occhi lo raccontavano senza parole. La scossa le aveva portato via i due genitori anziani, ma lei non era voluta andare via. Era rimasta lì, con le sue galline e pochi altri animali. E coi suoi ricordi. "No, non voglio niente, grazie". Così mi disse gentilmente quel primo giorno e ogni volta che passavamo. Inutile insistere. Però ogni volta tornavamo. E un giorno, un po' a sorpresa, mi chiese delle calze "ma nere, per favore", precisò a bassa voce, quasi con pudore. Non le avevamo. Ma bastò una telefonata a Roma (non c'erano i cellulari e approfittammo dei carabinieri) e col primo carico arrivarono anche le calze nere. Mi ringraziò e, quasi si fosse sciolto qualcosa, fece un'altra imprevista richiesta. "Mi accompagna dentro la casa?". Non era più entrata dal 23 novembre. Troppo pericoloso. E più passava il tempo, più pioveva e nevicava, e più aumentava il pericolo. Ma lei insisteva, sembrava tenerci molto. E allora le dissi "va bene", con l'incoscienza dei vent'anni. Dentro tutto era fermo al giorno della scossa.

Tra le macerie spuntavano gli oggetti di vita quotidiana. Pentole, piatti rotti, una giacca, scarpe. Una scena che avrei visto tante volte in occasione di altri terremoti raccontati da cronista. Ma qui c'era altro. In fondo, appoggiata a un muro, in parte schiacciata dalle macerie, comparve una bella madia di legno, di quelle dove un tempo si conservava il pane. La ragazza si avvicinò, mi chiese di aiutarla a togliere pietre e pezzo d'intonaco. La aprì. "È il mio corredo", mi disse con un leggero sorriso. Ecco cosa cercava. L'unica cosa importante che le era rimasta. Anche se in parte rovinata. Forse l'unica a cui aggrapparsi per il futuro. Per resistere al dolore e sperare.

Sarà andato così? Non ho più rivisto quella ragazza triste, non ricordo neanche il suo nome. Sono rimasto in quei luoghi per un mese e mezzo. Sempre girando tra i dimenticati. Mangiando le gallette delle "razioni K" dei militari e spaccandomi le mani col lysoform puro utilizzato per evitare infezioni. Un ricordo che mi è tornato alla mente in questi mesi di Covid e di mani da disinfettare. Altro "terremoto" ma sempre gli stessi utili gesti. Ho passato la notte di Natale nell'unica casa, in costruzione, ancora in piedi a San Mango sul Calore, trasformata in chiesa dagli scout "imballandola" con teli di plastica. In quella Notte Santa di quaranta anni fa, c'erano sopravvissuti e volontari. A celebrare un giovane religioso padovano, padre Ezechiele Ramin, di cui racconteremo la bellissima storia. Un altro ricordo indimenticabile. Poi, ai primi di gennaio, il ritorno a Roma. Si tornava alla normalità. Ma quegli occhi tristi e quel corredo impolverato non li ho mai dimenticati.

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