sabato 12 maggio 2018
Nel mondo di Loubna, che ha vent’anni e studia Scienze dei servizi giuridici all’Università Bicocca di Milano sognando di diventare una diplomatica, la vicenda di Sana
«Io, una figlia libera. A fare la differenza l'estrazione sociale»
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Nel mondo di Loubna, che ha vent’anni e studia Scienze dei servizi giuridici all’Università Bicocca di Milano sognando di diventare una diplomatica, la vicenda di Sana non sarebbe mai potuta accadere. «Conoscere, poi scegliere» ripete da sempre suo padre, marocchino, arrivato in Italia quando lei aveva appena 6 mesi, «e con questa libertà io e i miei familiari abbiamo vissuto sempre».

Quel che è accaduto a Sana dunque ti stupisce?
Nient’affatto. So benissimo che in molte famiglie islamiche i giovani, e in particolare le ragazze, hanno difficoltà enormi a coniugare il loro desiderio di vivere secondo la cultura italiana con quello dei loro genitori.

Questo dipende da un conflitto generazionale?
Secondo me, no. Io credo piuttosto che dipenda dall’estrazione sociale delle famiglie. Mi spiego con un esempio: il 90% di chi lascia il mio Paese, il Marocco, per venire in Italia, parte dalla campagna. Da una realtà rurale arretratissima, cioè, dove spesso nelle case manca luce e acqua corrente. Figurarsi quale può essere il livello culturale delle famiglie: queste persone spesso non hanno nemmeno frequentato le scuole, immaginate come possono comprendere le esigenze e i desideri che i loro figli esprimono crescendo invece in una realtà come quella italiana, e frequentando la scuola. L’impatto non può che essere devastante.

Questa non è la storia della tua famiglia...
No. Mia mamma è partita subito dopo essersi laureata, mio padre era diplomato, vivevano in una grande città. Non mi hanno mai imposto niente, anzi: pur essendo musulmani hanno voluto che frequentassi le ore di religione cattolica fin dalle elementari. Che scegliessi io, la mia religione.

Sei musulmana?
Sì, convintamente. Anche se non porto il velo perché credo di non meritarlo ancora: devo crescere, spiritualmente, raggiungere il grado di dignità che consente di indossare un simbolo così importante per la mia religione.

Tuo padre dunque non ti ha mai chiesto di indossarlo?
Mi ha detto «portalo non perché te lo dicono gli altri, ma perché ci credi tu». E così ho deciso.

E i rapporti coi ragazzi italiani?
Ne ho sempre parlato liberamente coi miei, senza problemi. Questo non significa senza incontrare le loro preoccupazioni, o paure, che io credo siano esattamente uguali a quelle che ogni genitore ha nel veder crescere e decidere della propria vita un figlio o una figlia.

Cosa si può fare, secondo te, per cambiare le cose ed evitare che casi come quelli di Sana si ripetano?
Noi giovani possiamo fare tanto. Possiamo sostenerci, dialogare, promuovere il dialogo. Questo è un cambiamento che non si può fermare: noi dobbiamo esserne protagonisti.

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