sabato 6 febbraio 2021
I cattolici sono una minoranza nel Paese, tra i più poveri del mondo, ma portano avanti un prezioso lavoro con le nuove generazioni
La delegazione della Cei a Niamey

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Niamey «La Chiesa è viva se c’è la carità. In Niger come altrove». Laurent Lompo, arcivescovo di Niamey, lo ripete più volte durante l’incontro tenutosi nella capitale del Paese africano a fine gennaio con una delegazione della Conferenza episcopale italiana composta dal vice-presidente e vescovo di Acireale, Antonino Raspanti, dal vescovo di Asti, Marco Prastaro, dal direttore della Fondazione Migrantes, don Giovani De Robertis e da Mariacristina Molfetta (Fondazione Migrantes).

Lo scambio tra Chiese sorelle s’inserisce nel solco della campagna “Liberi di partire, liberi di restare”. Lompo fa strada nel suo ufficio nell’arcivescovado della città, chiude a chiave una porta di ferro alle spalle: teme sequestri in un Paese sempre più soffocato da gruppi terroristici che premono alle sue frontiere. Mostra una fotografia incorniciata di padre Luigi Maccalli, rapito nel settembre 2018 in Niger al confine con il Burkina Faso e liberato nell’ottobre 2020 in Mali: «Il ruolo dell’ambasciatore italiano in Niger, Marco Prencipe, è stato decisivo », spiega.

E agli ospiti giunti dall’Italia dice «grazie per essere venuti, aver sfidato il virus e l’insicurezza». Lo fa anche a nome delle centinaia di persone, tantissimi i bambini, che hanno riempito poche ore prima la cattedrale di Niamey per la messa del 31 gennaio, concelebrata in un clima di festa da monsignor Raspanti, dal vescovo Prastaro e don De Robertis. Ci troviamo in uno degli Stati più poveri del mondo: all’ultimo posto per livello di sviluppo umano (fonte Nazioni Unite, 2020), registra una speranza di vita di 62,4 anni. Dopo la crisi libica del 2011 e le politiche di esternalizzazione delle frontiere dell’Unione europea che hanno interessato la regione a partire dal 2015, si è ritrovato ad accogliere tra il 2016 e il 2019 oltre un milione di persone. Tra loro anche i rifugiati evacuati dalla Libia – in attesa di essere reinsendiati in Europa e tratti in salvo tramite vie legali da quella che il vescovo Prastaro chiama la «porta dell’Inferno» – migranti di altri Paesi africani “bloccati” dalla legge nigerina 36/2015 di contrasto ai flussi, e migliaia di sfollati interni in fuga dai villaggi nelle zone di confine con Nigeria, Mali e Burkina Faso a causa degli attacchi terroristici di gruppi jihadisti e di Boko Haram.

Tra chi opera per migliorare le condizioni di vita di queste persone c’è la Chiesa cattolica. La comunità in Niger supera di poco i 40mila fedeli (su 22 milioni di abitanti) per una ventina di parrocchie riunite in due diocesi (Niamey e Maradi, al confine con la Nigeria). Negli ultimi mesi diversi sacerdoti sono stati allontanati dalle proprie parrocchie per motivi di sicurezza, lasciandone tre “scoperte”. Il lavoro della Chiesa è quotidiano e si concentra in particolare sull’educazione dei più giovani. «Nelle nostre due diocesi gestiamo 34 scuole, dalle materne alle superiori – continua monsignor Lompo –. Il fabbisogno però è superiore alla nostra capacità. In un Paese che registra un tasso di analfabetismo dell’80%, dobbiamo puntare sugli studi professionali per insegnare ai ragazzi un lavoro e offrire loro una prospettiva all’interno del Paese. Inoltre è prioritaria la formazione e la qualifica degli insegnanti. Nel 2030 il Niger conterà 50 milioni di abitanti: i giovani sono già il nostro avvenire e la Chiesa si domanda come dare loro un futuro».

Un futuro che è incerto per le migliaia di persone che hanno alle spalle un’esperienza migratoria: coloro che sono stati espulsi da Algeria, Libia, Ciad, Sudan, Nigeria e che possono “scegliere” se essere rimpatriati o tentare di ricostruirsi una vita in Niger. È di loro che si occupa il servizio pastorale migrante coordinato da padre Mauro Armanino, sul campo da quasi dieci anni. «Per colpa dell’Europa il migrante è sempre più visto con sospetto, criminalizzato – ricorda Armanino accogliendo la delegazione –. Noi invece rispettiamo le loro scelte e non li consideriamo come vittime, perché le vittime fanno pietà e diventano strumento di controllo».

Oltre all’ascolto i migranti accolti trovano assistenza medica, cibo, vestiti e supporto sia per chi decide di tornare nel proprio Paese sia per chi vuole restare, con percorsi di integrazione basati su formazione e lavoro. È così che sono stati accolti 1.263 migranti nel 2019 e 749 nel 2020: «Il nostro è un lavoro politico. Con il vertice de La Valletta del 2015, l’Ue ha scelto di bloccare in questo Paese il flusso dei migranti e questo ha creato panico. Noi vogliamo restare fedeli alla convinzione che tutti dovremmo essere “liberi di partire, liberi di restare” e ci battiamo affinché questo diritto venga rispettato». In Niger come altrove.

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