I segreti di Borg svelati nella sua autobiografia

Dietro la maschera di uomo di ghiaccio l’ex numero 1 al mondo del tennis nascondeva in realtà una grande fragilità che sfociò dopo il ritiro anche in attacchi di panico e dipendenze
October 15, 2025
I segreti di Borg svelati nella sua autobiografia
Björn Borg tra i più grandi tennisti di tutti i tempi
Björn Borg ha chiamato la sua autobiografia Battiti (Rizzoli, pagine 372, euro 22,00), come quelli del cuore e come i colpi che con la racchetta si danno alla palla. E non è solo una trovata poetica: è una chiave di lettura. Borg mette finalmente in sincrono il metronomo gelido dei suoi anni sul Centre Court di Wimbledon o di Roland Garros con le aritmie private del dopo-ritiro. Il libro, uscito lo scorso il 23 settembre, è il racconto di un ragazzo prodigio che ha cambiato il tennis e poi ha dovuto imparare, da adulto, la fatica del tempo e del limite fisico e intellettuale, come l’essere considerato una persona come tutte le altre e non un alieno. Nel 1980 John McEnroe, dopo che Borg - battendolo a Londra - aveva fatto suoi prima Roland Garros e poi Wimbledon, il campione americano affermò: «Se Borg vince anche ad Us Open, vado anche io in Australia (in quegli anni lo slam Aussie, poco frequentato dai campionissimi, si giocava a dicembre, come ultima tappa non come ora che è la prima, ndr), perché non è giusto regalargli il Grande Slam». Con le sue dichiarazioni Supermac evidenziava bene il clima di pressione che c’era nei confronti di Borg: un’alleanza contro di lui, per batterlo, anche perché nessuno riusciva a trovare strategie di gioco capaci di contrastare più che la tecnica il suo atteggiamento glaciale, efficiente e vincente.
Non a caso nel volume di Rizzoli, la parte psicologica di Borg è quella che sorprende di più. Dietro l’uomo di ghiaccio, infatti, c’era un bambino che si arrabbiava al punto da essere squalificato dai tornei locali, costretto a educare la propria tempesta fino a trasformarla in autocontrollo scenico: la maschera che tutti ricordiamo. Ma la tensione non scompare, si sposta. Dopo il ritiro a soli 26 anni – la decisione più controcorrente della sua generazione – Borg precipita in un fuori campo di angosce, attacchi di panico e dipendenze. Racconta di ospedali, di abuso di stupefacenti, tanto da andare in overdose durante un soggiorno nei Paesi Bassi negli anni Novanta, e il senso di vergogna nel vedere il padre al suo capezzale. È il capitolo più duro del libro, e anche il più onesto: i battiti che sfuggono di mano, l’idea di “autocura” sbagliata con alcol e cocaina, e la lenta ricostruzione di sé.
C’è poi la malattia. Borg affida alle pagine finali la diagnosi di un tumore alla prostata «estremamente aggressivo» – operato nel 2024, ora in remissione – e la disciplina con cui vive i controlli periodici: «Giorno per giorno», esattamente come preparava una finale di Wimbledon: un colpo alla volta, un game alla volta, un set alla volta. Sono righe che tolgono enfasi e aggiungono misura, quasi un’etica sportiva applicata alla fragilità. Anche qui i “battiti” tornano tema musicale: ascoltare il proprio corpo, accettarne i silenzi, non inseguire più il mito dell’invulnerabilità.
Il libro è anche un’antologia di curiosità, non pettegolezzi: incontri con Warhol e Tina Turner, le serate sbagliate, i passaggi nell’entourage del jet set, persino un paio di capitoli che lambiscono la geopolitica pop (da Trump ad Arafat), più che altro per misurare la smania di icone e potere che girava attorno al tennis di quegli anni. In sottofondo, una verità semplice: quando sei il volto di uno sport globale, il mondo ti accade addosso, ti interroga anche se tu non ne sai nulla.
La sua carriera sta tutta nella sobrietà dei numeri: undici Slam, sei Roland Garros, cinque Wimbledon consecutivi dal ’76 all’80; e quel 1980 contro McEnroe che è rimasto nell’immaginario come una finale-soglia, l’istante in cui il tennis diventa racconto epico. Borg non indulge alla nostalgia: preferisce spiegare il lavoro invisibile, le routine, l’ascetismo. E quando descrive il ritiro, dopo le sconfitte del 1981 con McEnroe, non cerca alibi: dice che la musica si era fermata. Un caso evidente, come dice la psicologia, di drop-out. Prova a tornare in campo nel ‘91 - usando le sue ormai obosolete racchette di legno - a Montecarlo: perde male al primo turno. Nel 1992 gioca atri 8 tornei collezionando altrettante sconfitte. Finisce così: male.
Il dopo-tennis non è solo sopravvivenza. È anche impresa. Il marchio Björn Borg, underwear e sportswear, è il suo modo di restare nel gioco, non senza problemi economici. Battiti è un libro interessante perché non vuole essere un bilancio di ciò che un campione ha fatto, ma semplicemente un racconto di come scorre la vita, a cui secondo Borg va regolata la velocità, per non finire fuori giri. Un metodo per imparare a sentirsi, ad ascoltare l’ansia prima che diventi dipendenza, fermarsi prima che il gesto perfetto diventi nevrosi, accettare la cura come nuova forma di preparazione atletica. L’uomo che ha insegnato al tennis a respirare sul ritmo dello scambio ci dice che la vita vera, a volte, è appunto cambiare ritmo. E c’è un ultimo messaggio, forse il più “civile” del libro che tocca nel profondo: la malattia non cancella il talento, lo rilegge; la caduta non smentisce la grandezza, la umanizza. Così quei “battiti”, finalmente, tornano regolari. E il rumore della pallina assomiglia sempre più a quello del cuore.

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