La cooperazione culturale compie 50 anni e chiede un suo codice
Negli anni ‘70 nascono le prime formee associative di ispirazione artistica. Giovanna Barni: «Siamo preziosi presidi territoriali»

Cinquant’anni fa, sull’onda delle sperimentazioni civili e artistiche che attraversavano l’Italia degli anni Settanta, nacquero le prime cooperative culturali: un movimento che, ispirato da Cesare Zavattini, scelse di fare della cultura un terreno condiviso, aperto e democratico. Da quella visione prese forma un modello capace di unire impresa e partecipazione, arte e responsabilità sociale. Oggi, molte di quelle esperienze – dal Teatro del Buratto alla Fabbrica dell’Attore, al Tascabile di Bergamo – continuano a essere presidi di creatività e cittadinanza, testimonianze di un’economia culturale che sa rigenerarsi e restare fedele ai propri valori fondativi.
Oggi, la giornata “Memorie vive, futuro in comune”, celebra a Milano i 50 anni del Teatro del Buratto e della cooperazione culturale italiana, riunendo istituzioni, artisti e rappresentanti del mondo cooperativo per riflettere sul futuro dello spettacolo dal vivo e sulla proposta di un nuovo Codice dello Spettacolo.
L’appuntamento è un’occasione per rilanciare il ruolo della cooperazione come forma stabile e innovativa dell’economia sociale della cultura fondata su governance partecipata, mutualità e radicamento nei territori. Un modello che genera impatto sociale, favorisce il riequilibrio territoriale, sostiene il lavoro culturale in tutte le sue forme e promuove nuove alleanze tra istituzioni, scuole, comunità e artisti. Ne abbiamo parlato con Giovanna Barni, presidente nazionale di Culturmedia Legacoop, indicando sfide e opportunità che attendono il mondo dello spettacolo dal vivo, dal riconoscimento dei diritti dei lavoratori culturali alla riforma del Fondo Nazionale dello Spettacolo.
Presidente Barni, cosa rappresenta questo anniversario?
«Come Culturmedia – che riunisce circa un migliaio di cooperative aderenti a Legacoop, molte delle quali attive nello spettacolo dal vivo – celebriamo un passaggio importante. Culturmedia nasce cinquant’anni fa con l’obiettivo di rendere la cultura più diffusa, inclusiva e accessibile, superando un’idea elitaria: sfide che restano attualissime. Molte di quelle esperienze infatti sono ancora vive e continuano a rappresentare modelli di impresa culturale intergenerazionale, capaci di attraversare le crisi e rigenerarsi».
Qual è l’eredità più viva della cooperazione teatrale e in che direzione guarda oggi?
«Il tratto distintivo del teatro cooperativo è la governance democratica: una struttura orizzontale, priva di gerarchie rigide, in cui chi produce è anche parte delle scelte artistiche e gestionali. È un modello che offre opportunità concrete ai giovani che vogliono fare impresa culturale in un settore dove prevale ancora l’associazionismo. La forma cooperativa tutela il lavoro e favorisce il decentramento, permettendo di operare in contesti territoriali diversi».
Uno dei principi guida della proposta è riconoscere la forma cooperativa come tipologia stabile dell’economia sociale dello spettacolo.
«Sarebbe un passo fondamentale, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. La cooperazione crea relazioni, costruisce comunità e genera crescita sociale e culturale collettiva. Oggi circa 70 cooperative teatrali accedono al Fondo Nazionale per lo spettacolo dal vivo, ma la loro specificità non è adeguatamente riconosciuta. Nel teatro per le nuove generazioni, ad esempio, le cooperative rappresentano oltre l’80% del totale, svolgendo una funzione pubblica e sociale essenziale, pur restando teatri indipendenti. Riconoscere la cooperazione nel Codice significa valorizzare il pluralismo culturale come pilastro della democrazia».
Nella proposta chiedete che la cooperazione sia rappresentata in modo stabile nei tavoli del MiC e nel tavolo welfare. Perché è importante esserci?
«Riteniamo che la cooperazione debba essere riconosciuta come soggetto centrale nel rapporto tra Stato e Regioni. Le cooperative perseguono obiettivi qualitativi – diffusione territoriale, inclusione di nuovi pubblici, radicamento nelle comunità – che spesso sfuggono agli algoritmi di valutazione quantitativa».
Come si può favorire un rapporto strutturale tra scuole, centri di produzione cooperativi e politiche educative?
«Serve un approccio professionale: il lavoro delle cooperative non deve sostituirsi al volontariato, ma integrarlo con competenza e continuità. Il teatro cooperativo è parte della comunità educante e può offrire percorsi di espressione, consapevolezza e crescita critica per i giovani. È importante inoltre operare in modo decentrato, attraverso accordi specifici tra Stato e Regioni, che consentano strategie territoriali e la rigenerazione di spazi dismessi. Un esempio virtuoso è il Tascabile di Bergamo, che ha rifunzionalizzato un ex convento trasformandolo in un centro di produzione artistica per nuovi linguaggi espressivi, restituendo alla città un presidio culturale vivo».
Tra le proposte c’è la richiesta di uno Statuto dei lavoratori dello spettacolo. Quali tutele mancano oggi ai lavoratori culturali?
«Siamo firmatari di un contratto collettivo per lo spettacolo e la creatività che include anche le professioni tecniche e digitali, oggi parte integrante del settore. È un contratto che ha contribuito a ridurre precarietà e lavoro nero. Il nostro è un lavoro discontinuo, ma deve poter contare su tutele adeguate e strumenti di welfare specifici. Chiediamo inoltre un osservatorio che monitori la capacità delle cooperative di prendersi cura delle diverse componenti del lavoro culturale, artistiche e tecniche».
Dove si inceppa il sistema dei finanziamenti?
«Il modello attuale tende a premiare l’iperproduzione, riconoscendo il deficit più che la qualità del progetto. Questo frammenta le risorse e impedisce la costruzione di vere filiere, dove produzione, distribuzione e internazionalizzazione siano integrate e coordinate».
Cosa vorrebbe ora?
«Mi piacerebbe emergesse che una cooperativa teatrale non lavora solo sul rapporto tra spettacolo e pubblico, ma anche sulla relazione con il territorio. È un modello che costruisce legami, presidia spazi, rigenera comunità e dove la cultura è un bene comune, nonché un diritto reale di cittadinanza».
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