Non siamo alla “fine del mondo”: c’è la Città di Dio che viene
di Paola Muller
Con Agostino entriamo nel "segreto" del Natale. Le nubi che incombono sul nostro presente non lo esauriscono né ci lasciano confusi, perché la nostra speranza va oltre l’oggi e ci chiama a non accontentarci.

Ci sono momenti nella storia in cui una civiltà si accorge di non essere eterna: le sue strutture mostrano crepe, le sue promesse non bastano più. Sono tempi in cui si moltiplicano le paure, si cercano colpevoli, si invocano soluzioni rapide. Sant’Agostino scrive La Città di Dio in una di queste circostanze. Roma, che per secoli aveva incarnato l’idea stessa di ordine, diritto e stabilità, viene saccheggiata nel 410. L’“eterna” Urbe si scopre vulnerabile. Molti parlano apertamente di fine del mondo.
Anche oggi, pur senza saccheggi visibili, si diffonde una sensazione simile: che ciò che reggeva non regga più. Senza crolli spettacolari, ma attraverso crisi che si sovrappongono – guerre, disuguaglianze, fragilità ambientali, sfiducia nelle istituzioni – cresce la sensazione che ciò che appariva solido non lo sia più.
Nell’ultima settimana di Avvento, mentre l’attenzione sembra concentrarsi solo sull’imminenza del Natale, la liturgia invita invece ad allargare lo sguardo. Non solo verso la nascita di Cristo, ma verso l’orizzonte ultimo della speranza cristiana. È qui che il pensiero di Agostino torna a parlarci con sorprendente lucidità.
L’Ipponate non risponde al crollo di Roma difendendo un sistema politico o rimpiangendo un passato idealizzato. Compie un gesto più radicale: invita a ripensare il senso della storia e il luogo autentico della speranza. È in questo contesto che nasce la sua celebre distinzione tra la città di Dio e la città dell’uomo. Una distinzione spesso fraintesa, ma decisiva per comprendere l’Avvento.
Non si tratta di due città geografiche, né di una contrapposizione semplicistica tra buoni e cattivi. «Due amori – scrive Agostino – costruiscono due città: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio e l’amore di Dio fino al dono di sé» (La Città di Dio 14.28). Non sono separabili nella storia. Sono mescolate, intrecciate, presenti nello stesso tempo e spesso nelle stesse persone. Non dividono il mondo in schieramenti contrapposti, ma attraversano la coscienza di ciascuno rendendolo cittadino dell’una o dell’altra.
Questa visione impedisce ogni fuga dal mondo e ogni trionfalismo religioso. La città di Dio non coincide con un impero, né con una Chiesa identificata con il potere, né con un progetto storico che possa dirsi definitivo. È una realtà già presente e insieme non ancora compiuta: pellegrina nel tempo, orientata a un compimento che non dipende dalle sole forze umane. È una città che cresce silenziosamente nella storia, senza mai identificarsi pienamente con essa.
Qui si innesta in modo naturale il senso profondo dell’Avvento, che non è il tempo della nostalgia né dell’evasione. È il tempo del “già e non ancora”, della promessa che ha già fatto irruzione nella storia ma non si è ancora manifestata pienamente. Vivere l’Avvento significa imparare a stare in questa tensione: senza assolutizzare il presente, ma anche senza disprezzarlo.
Questa postura è oggi più che mai necessaria. Da una parte, assistiamo alla tentazione di costruire salvezze terrene definitive: sistemi economici, tecnologie, ideologie, leadership forti chiamate a risolvere tutto. Dall’altra, cresce una rassegnazione diffusa, una forma di quello che il sociologo Zygmunt Bauman ha chiamato “presentismo” – l'incapacità di proiettarsi oltre l'immediato – che rinuncia a pensare il futuro e si limita a gestire l’emergenza. Agostino smaschera entrambe le illusioni. Quando la città dell’uomo pretende di essere eterna diventa oppressiva; quando rinuncia a ogni orizzonte di senso scivola nel cinismo.
La speranza cristiana non coincide né con l’ottimismo ingenuo né con la rassegnazione. È una virtù esigente, che nasce dalla convinzione che Dio non ha abbandonato la storia, ma vi è entrato. La città di Dio non cancella la città terrena ma la orienta. Non elimina la fatica del vivere, le restituisce senso.
Celebre è l’inizio delle Confessioni: «Ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (I, 1.5). In un mondo che tende a colmare ogni vuoto con distrazioni, consumo, prestazioni, Agostino ci insegna che l’inquietudine non va cancellata ma interpretata. È il segno di una chiamata più grande. L’Avvento diventa così una pedagogia del desiderio: non spegne il desiderio umano, ma lo purifica dal rischio di accontentarsi di troppo poco.
Nell’ultima domenica di Avvento, la liturgia concentra lo sguardo sull’imminenza della venuta di Cristo. È un’attesa che non paralizza ma orienta. Agostino lo dice con forza: il cristiano è colui che vive proteso verso ciò che deve ancora venire, senza disprezzare ciò che è già dato. La fede non elimina l’inquietudine: la rende feconda.
Questa attesa ha conseguenze molto concrete. Per Agostino l’appartenenza all’una o all’altra città non si decide nei proclami o nelle appartenenze formali, ma nelle scelte quotidiane: nel modo di esercitare il potere, di usare il denaro, di concepire la legge, di abitare le relazioni. La città di Dio non si riconosce da simboli esteriori, ma dalla qualità dell’amore che la anima.
È qui che la carità diventa il principio costruttivo della città che viene. Non una carità sentimentale o individualistica, ma quella caritas che è amore ordinato, capace di generare legami, comunità, istituzioni più umane. Attendere la città di Dio significa, allora, costruirla già ora, con materiali fragili ma reali, spesso invisibili: la giustizia imperfetta ma cercata, la solidarietà vissuta, la cura dei più vulnerabili.
Per questo l’attesa cristiana non è mai disimpegno. Ma non è neppure l’illusione di poter costruire il paradiso in terra. È una forma alta di responsabilità storica, che sa impegnarsi senza idolatrare, sperare senza illudersi, costruire senza pretendere di possedere il compimento.
Alla vigilia del Natale, mentre tutto sembra spingerci verso la fretta e la superficialità, Agostino ci invita a rallentare lo sguardo. A riconoscere che l’inquietudine che attraversa il nostro tempo non è solo segno di crisi ma anche di attesa. La città che viene non è un sogno lontano: è già all’opera ogni volta che l’amore vince sull’egoismo, la speranza sulla rassegnazione, la cura sull’indifferenza.
Abitare l’attesa, oggi, significa proprio questo: vivere il presente senza assolutizzarlo, nella fiducia che la storia non è chiusa e che il suo compimento non dipende solo da noi, ma da un Dio che viene. È questa la speranza sobria e tenace che l’Avvento continua a consegnare all’uomo di oggi. La speranza che non illude, perché non promette scorciatoie, ma un compimento.
© RIPRODUZIONE RISERVATA





