venerdì 6 gennaio 2017
Una mostra sull’arte americana degli anni Trenta rivela l’ordito delle ispirazioni, delle interferenze culturali e dei travasi di segni e di colore in autori come Wood, Jones, Neel, Guston, Kuhn
Riflessi d'Europa nei pittori yankee
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Il Ritratto dei genitori dipinto da Otto Dix nel 1921, esposto al Kunstmuseum di Basilea, incute paura, fa pensare molto al tipo di società che si stava formando in Germania dalle classi contadine e proletarie, una declinazione antica e nuova al tempo stesso del Volk, il popolo. Certo è che, contrariamente a quanto si sente dire oggi da certi populisti, in popolo in sé non è una entità buona a prescindere da ogni valutazione su come si comporta. Il popolo non gode nelle opere di Dix o di Grosz un privilegio di assoluzione preventiva. È qualcosa di diverso anche dalla massa che Canetti esamina nel suo libro forse più citato, Massa e potere. Il popolo tedesco di cui i genitori di Dix sono un esempio molto preciso, è come il cane quando dorme, è da lasciare in pace perché se si sveglia si rischia molto. Le due figure possiedono una ferina primitività, una loro bestialità, che non vuole affatto essere una brutale offesa del proprio padre e della propria madre, ma incarna piuttosto il sentimento di ciò che lega il tedesco alla terra, dove essere contadini significa al tempo stesso essere parenti con il mondo animale, vegetale e minerale.

Sangue e zolle impregnate da questo liquido vitale. Si pensa al quadro di Otto Dix entrando al Museo dell’Orangerie a Parigi per vedere la mostra sulla pittura americana degli anni 30. Si pensa a Dix quando ci si trova di fronte il quadro-simbolo, o una bandiera del mondo americano dei fondatori, quello dei coloni e delle immense distese rurali: American Gothic, dipinto da Grant Wood nel 1930. Rappresenta in posa frontale un uomo e una donna; lui più anziano, saloppette di jeans, camicia senza collo e giacca scura, stringe in pugno un forcone tenendolo davanti a sé, mentre ti guarda fermo e sicuro: un uomo privo di angoscia, duro come pietra. La donna è la figlia (a posare fu la sorella di Wood), il cui volto è simile a quello di certe Madonne rinascimentali. Alle spalle di entrambi la casa di legno, del tipo 'Carpentier gothic'. Nella tavola di Wood si respira rude ottimismo e un senso fiero del destino americano.

Il fatto è che se i genitori di Dix incutono una paura irrazionale, come se in loro si intuisse già quell’indole da macellai che emergerà in molti tedeschi col nazismo, i due coloni americani suscitano un’inquietudine diversa: ci stanno dicendo che sono pronti a difenderle col proprio corpo quella terra e quella casa, perché sono frutto del loro carattere volitivo e del diritto alla proprietà che sta alla base della società americana. Alcuni dettagli dicono fierezza e pulizia morale: il cammeo della ragazza e il suo abito semplice e ordinato, i capelli raccolti, gli occhi azzurri; gli occhialini ovali del padre, il volto sbarbato e i lineamenti asciutti, i capelli corti; e quella luce chiara che pervade tutta la scena facendo pensare alle albe primaverili. Sono la manifestazione dei principi affermati nella Dichiarazione d’Indipendenza: la libertà di realizzare la propria felicità un acro di terra (molto di più, in realtà) e la casa come qualcosa di sacro (la finestra che culmina nella forma a ogiva, una forma gotica appunto). A suo modo la memoria di quella casa ritorna nel regionalismo architettonico della Vanna Venturi House a Philadelphia, uno dei monumenti del postmoderno americano, costruita da Robert Venturi nel 1964. Wood è l’inizio, se vogliamo, della tradizione pittorica americana (dopo il battesimo dell’Armory Show nel 1913). Wood si era perfezionato in pittura andando a Parigi proprio quando Dix dipingeva il suo quadro, e nel 1928 partì per la Germania, fermandosi a Monaco dove studiò i pittori delle Fiandre, il rinascimento tedesco e la Nuova Oggettività.

Un plot di cui American Gothic porta tutte le stigmate, ma purificate da quella sensibilità essenziale, minimalista, che aveva ispirato l’estetica industriale dei silos per sementi. Nell’anno in cui Wood arrivava a Monaco, Walter Gropius partiva per un viaggio negli States e, rilasciando un’intervista al 'New York Times', definirà i silos di Chicago la vera architettura moderna, i nuovi propilei della modernità. Wood aveva studiato all’Istituto d’arte di Chicago, città do- ve era molto attiva una delle più numerose comunità di lingua tedesca dell’America. Gli eredi di quella nuova tradizione americana, saranno Edward Hopper, Charles Sheeler, Georgia O’Keeffe, in una rarefazione visiva che approderà poi a Rauschenberg, Rothko e Reinhardt; a fianco, il filone del realismo magico, con punte d’immaginoso, grottesco surrealismo, prova generale della futura Pop Art. In realtà, le due anime si compenetrano: che dire, altrimenti, del paesaggismo surreale dello stesso Wood in dipinti come La cavalcata notturna di Paul Revere del 1931 o Morte sulla Ridge Roaddel 1935, dove il mondo sembra ridursi a un teatrino da lanterna magica o a un cartoon nel quale le forme si allungano e si piegano violando le leggi naturali e fisiche.

L’America anni 30 cerca se stessa, e qualche volta si ritrova. L’Autoritratto in panni da clown di Walt Kuhn, pur molto bello, non riesce a farci dimenticare la pittura europea, Derain per esempio; il surrealismo europeo si è più che mai insinuato nel regionalismo pittorico di Alexandre Hugue, in particolare nel dipinto La madre terra messa a nudodel 1936, dove gli andamenti collinari attorno a una fattoria rivelano (con largo anticipo sulla manipolazione pop delle immagini) un corpo femminile, mentre in primo piano abbandonato a terra vediamo un aratro; un andamento simile, ha Thomas Hart Benton; mentre Charles Sheeler è il profeta del geometrismo industriale, incline a quello che potremmo definire fotoiperrealismo ante litteram: il suo mondo è privo di ombre, apparentemente cristallino, in definitiva disumanizzato come una città ideale; la disumanizzazione - da epoca dell’angoscia, questo il titolo della mostra - che troviamo nella cupa essenzialità degli scaricatori di porto di Joe Jones o, dello stesso, nella tela Giustizia americanache ritrae un gruppo di membri del Ku Klux Klan che hanno seviziato una ragazza di colore e stanno per impiccarla dopo averle incendiato la casa; oppure nella dura pasta d’uomo del sindacalista comunista Pat Whalen ritratto nel 1935 da Alice Neel, le cui mani pugnaci sono appoggiate sopra al 'Daily Worker' che strilla nel titolo di testata lo sciopero degli operai del carbone e dell’acciaio, ovvero, infine, quella distruzione dell’umano che deflagra nel Bombardamento di Philip Guston del 1937, reazione al massacro di Guernica che risente molto dello stile che connota le opere sulla Grande Guerra di Dix e Grosz. Pensare alla pittura americana senza quella europea è quasi impossibile; troppi i riflessi che si colgono di questa nell’altra; lo stesso Hopper non sarebbe diventato quello che è se prima non avesse filtrato il peso specifico della pittura parigina degli anni 20; e poco più tardi il giovane Pollock non avrebbe raggiunto quella soglia di figurazione scomposta che caratterizza i suoi primi dipinti, senza Picasso, anche se poi filtrato dal sentimento sciamanico della ritualità Navajo.

La più libera di tutti, in fondo, sembra Georgia O’Keeffe, non perché i suoi fiori e i suoi bucrani siano indenni dalla mediazione sul passato europeo, ma perché il suo tessuto pittorico si genera da una sorta di mineralizzazione, od ossificazione del colore depurato di ogni residuo vitale, essiccato al sole fino a renderlo capace di sfidare il tempo eterno e immutabile. Una reliquia che rimanda solo a se stessa.


Parigi, Museo dell’Orangerie
LA PEINTURE AMÉRICAINE DES ANNÉES 30
Fino al 27 gennaio

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