lunedì 6 agosto 2018
Nel Festival in Germania “Lohengrin” e “Valchiria” in salsa mediterranea. Trionfa il «verdiano» Beczala. Fischi per Domingo direttore d'orchestra. “I maestri cantori” contro l'antisemitismo
"Lohengrin" al Festival wagneriano di Bayreuth (foto Enrico Nawrath/Bayreuther Festspiele)

"Lohengrin" al Festival wagneriano di Bayreuth (foto Enrico Nawrath/Bayreuther Festspiele)

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Arrivi in Germania con la convinzione che i capolavori di Richard Wagner si possano ascoltare con un approccio tedesco, ricchi di chiaroscuri e contrasti, teutonici e romantici insieme. Soprattutto se la tappa è Bayreuth, la cittadina della Baviera dove dal 1876 si tiene il Festival ideato dal cantore di Sigfrido nel teatro fatto costruire da lui stesso a misura delle sue imponenti partiture, simbolo della sua concezione di «opera d’arte totale». Invece ecco la sorpresa. Sulla collina verde in cui svetta il Festspielhaus il rivoluzionario compositore assume i tratti mediterranei e i suoi titoli vanno in scena all’italiana. Ciò avviene grazie a due nomi: Piotr Beczala, il tenore 51enne d’origine polacca ma dal timbro nostrano, che veste i panni di Lohengrin e il “big” spagnolo Placido Domingo che a 77 anni torna a Bayreuth non come interprete ma come direttore d’orchestra di Valchiria (Die Walküre) che viene proposta come titolo a se stante e non all’interno dell’intera Tetralogia.

A volere questa operazione è la coppia che ha in mano le redini della rassegna: la pronipote del maestro, Katharina Wagner, e il direttore musicale Christian Thielemann, una delle migliori bacchette wagneriane contemporanee. Non che l’idea sia campata in aria. La «possente mente» di Lipsia amava la Penisola dove ha spesso soggiornato e scritto parte dei suoi drammi. A questo si aggiunge quanto annotava la moglie Cosima: le opere del consorte vanno «cantate in italiano ma declamate in tedesco». Il risultato piace (almeno in parte) al pubblico di Bayreuth. Ovazioni per il Lohengrin di Beczala. E applausi – insieme a un’abbondante dose di «buu» – per Domingo.

«Viva Wagner, viva Verdi», scherza qualcuno all’uscita del teatro. Un’efficace sintesi di quanto la kermesse sperimenta nell’edizione 2018 che si è aperta il 25 luglio e che si concluderà il 29 agosto. Già si prospettava da qualche anno un Lohengrin sudeuropeo. Thielemann – che lo dirige – lo aveva testato a Dresda nel 2016 chiamando a debuttare nel medesimo titolo proprio Beczala e la star russa Anna Netrebko. Sembrava un’anteprima della nuova produzione di Bayreuth. E anche Beczala lo ha raccontato svelando di essere stato in incognito nella cittadina bavarese per provare con il direttore musicale. La scorsa estate l’annuncio: il cavaliere del cigno sarebbe stato l’italofrancese Roberto Alagna, il Radames fuggito nell’Aida del 2006 dalla Scala di Milano per le critiche del loggione, che mai prima ha interpretato un ruolo wagneriano. Nome diverso, ma sulla stessa lunghezza d’onda.

Però, siccome Bayreuth è come una telenovela con intrighi, colpi di scena e rivalità, ecco il terremoto a fine giugno: il giorno prima che inizino le prove, Alagna comunica il suo forfait. «Ho memorizzato solo metà spartito», ammette. Troppi impegni, dice lui. Paura dei fischi, sussurrano i maligni. Così in fretta e furia viene convocato Beczala che era stato Alfredo alla Scala nella Traviata del 7 dicembre 2013. Lui accetta l’incarico che gli garantisce l’esordio nel Walhalla della lirica. Benché abbia una pronuncia cristallina, il Lohengrin del beniamino polacco non emoziona. A Beczala manca il vigore del tenore eroico. Nel duetto sul talamo nuziale è sopraffatto da Anja Harteros, un’Elsa chiaramente tedesca. E nel “racconto del Graal” (In fernem Land) – nel terzo atto – in cui il cavaliere svela il suo nome che l’amata non avrebbe mai dovuto chiedergli pena l’addio, sembra di immergersi in Verdi, magari in Otello. Eppure la critica e gli spettatori tedeschi esaltano la performance, forse per quel singolare fascino che in Germania ha tutto quanto è italiano. Del resto nella terra di Wagner si urla «bravo» a teatro o si scrive «uomo» nei negozi d’abbigliamento. In questo modo si spiega Bayreuth trasformato nel Belpaese.

Anche l’arrivo di Domingo va letto con la medesima lente. Varcata l’ultima volta la soglia del Festspielhaus nel 2000, era stato Siegmund in Valchiria. Stesso titolo (Die Walküre) che adesso lo vede sul podio. La sua impostazione è lenta, distesa, legata, ma piatta e incolore. Per di più non mancano le sviste: nel primo atto c’è più volte una totale diacronia fra buca e palcoscenico. Ne fanno le spese Anja Kampe (ottima Sieglinde) e Stephen Gould (un intenso Siegmund) che si trova addirittura per una ventina di battute fuori tempo mentre canta Winterstürme wichen dem Wonnemond. Domingo non dà i giusti attacchi? Non segue i cantanti? Chissà. Parte del pubblico lo salva comunque. Ma un’altra – altrettanto significativa – lo boccia con una sonora contestazione al termine. Nessuna indulgenza anche di fronte a un omaggio alla carriera. Peccato perché il cast di questa Valchiria – ripresa dall'Anello del Nibelungo (Der Ring des Nibelungen) del bicentenario wagneriano del 2013 firmato dal regista Frank Castorf e ambientata fra i pionieri dei pozzi petroliferi in Azerbaigian – è all’altezza di Bayreuth: Catherine Foster è una passionale Brünnhilde; John Lundgren un tormentato Wotan; Marina Prudenskaya un’arcigna Fricka; e Tobias Kehrer (Hunding) ha un timbro accattivante seppur sia un po’ carente nelle note alte.

Certo, il vero trionfatore è Thielemann. Non è un caso che la bacchetta berlinese entri quest’anno nella leggenda di Bayreuth: assieme a Felix Mottl (1856-1911) è l’unico direttore nella storia del Festival ad avere guidato tutti i titoli wagneriani previsti dalla rassegna. Mitteleuropea a tutti gli effetti la sua direzione di Lohengrin: calibrata, precisa, carica di sfumature. Sublime il preludio che vale l’ascolto dell’intero dramma. E, se anche Beczala brilla, lo si deve all’ex assistente di Karajan che stende un tappeto rosso sotto i cantanti. Harteros non è al cento per cento e si percepisce per metà opera, ma nel finale è un’Elsa da incorniciare. Sulla collina verde torna anche Waltraud Meier, stella del popolo di Wagner: a 62 anni è un’Ortrud ancora interessante sebbene non abbia più la brillantezza dei tempi d’oro. E a Bayreuth si congeda, salutata con calore dai suoi fan. Rimandato il Telramund del polacco Tomasz Konieczny, mentre spicca Georg Zeppenfeld (re Heinrich), fra i massimi bassi wagneriani di oggi.

E lo spirito mediterraneo del Festival contagia anche il meteo. Trentotto gradi la temperatura a Bayreuth. Ed è già parte dell’immaginario tedesco la cancelliera Angela Merkel che gronda di sudore alla prima di Lohengrin, titolo d’apertura della rassegna. Negli intervalli c’è anche chi sguazza con lo smoking nelle fontane intorno al teatro. Teatro dove all’interno si sfiorano i quaranta gradi, visto che è rimasto com’era a fine Ottocento quando Wagner lo concepì: senza aria condizionata e con scomode sedie in legno. Ma anche questo fa parte del mito di Bayreuth.

Sarà anche una “lady di ferro” che guida con piglio decisionista il Festival di Bayreuth. E sarà pure una regista d’avanguardia con uno stile che divide. Ma Katharina Wagner, pronipote 40enne del maestro, un merito ce l’ha sicuramente: quello di voler togliere la patina “nera” al suo geniale parente che in parte si era conquistato con i suoi scritti antisemiti e che in parte è figlia dell’appropriazione indebita dei suoi drammi musicali compiuta dal nazismo e avvenuta con la complicità dei suoi eredi troppo vicini a Hitler. Da qualche anno la pronipote si cimenta in un tentativo di riconciliazione. A partire dal popolo ebraico per il quale il rivoluzionario romantico auspicava l’Untergang (“annichilimento”, “tramonto”), come si legge nel suo pamphlet Il giudaismo nella musica. Accanto alla mostra “Le voci ammutolite” che nei giardini del teatro racconta l’espulsione degli artisti ebrei dal Festival, Katharina ha chiamato in appena dodici mesi due registi d’origine ebraica per le nuove produzioni della kermesse. Quest’anno è la volta dell'israelo-statunitense Yuval Sharon impegnato in Lohengrin. Nel 2017 è toccato a Barrie Kosky che ha ideato I maestri cantori di Norimberga in scena anche questa estate.

Tra i due allestimenti, però, c’è una profonda differenza. Mentre quello di Kosky ha chiari riferimenti all’antisemitismo, il lavoro di Sharon si limita ad accennare a una liberazione della donna (Elsa) dall’oppressione maschile (rappresentata dall’eroe che, invece del salvatore, è nella mente del regista un maschilista il quale pretende le nozze senza neppure che la consorte sappia il suo nome). In realtà l’apporto di Sharon a Lohengrin è minimo. Cambiato in corso d’opera il regista che in principio era Alvis Hermanis e che se n’era uscito con frasi contro i migranti non gradite ai vertici del Festival, l’allestimento era già stato impostato dai due artisti di Lipsia Neo Rauch e Rosa Loy. Il risultato è un dramma dalle sembianze pittoriche: ogni scena è una porcellana di Delft, simile alle famose maioliche azzurre dell’Olanda. E fiamminghi sono gli abiti. Tranne quello di Lohengrin: è un elettricista che arriva dopo un cortocircuito e che trascorrerà la prima notte con Elsa in una cabina di trasformazione. Cabina che domina gran parte dell’opera assieme al colore azzurro. Scene apprezzate dal pubblico che però risultano fin troppo statiche. Quadri appunto, non scenografie.

Di gran lunga più interessanti I maestri cantori di Norimberga (Die Meistersinger von Nürnberg) firmati da Kosky. I due protagonisti maschili, il girovago Walther Stolzing e il ciabattino artista Hans Sachs, sono entrambi Wagner: l’uno giovane, l’altro di mezza età, emblemi della nuova arte creata dall’irrequieta penna tedesca. Il fustigatore fustigato Sixtus Beckmesser è invece un ebreo, in questo caso l’Hermann Levi direttore di fiducia di Wagner. Se il primo atto ha come sfondo Villa Wahnfried, la dimora del maestro a Bayreuth, gli altri due si svolgono nell’aula del processo di Norimberga. Come a dire: Wagner uomo può essere “condannato”, non le sue partiture. Oltre che da vedere, I maestri cantori sono anche la migliore produzione da sentire quest’anno. La direzione dello svizzero Philippe Jordan è più intima che maestosa ma nel complesso equilibrata. Eccellenti gli interpreti fra cui Michael Volle, l’attuale miglior Sachs sulla piazza, e Klaus Florin Vogt, star tedesca e vibrante Walther.

Parlerà russo nel 2019 il Festival wagneriano di Bayreuth. La nuova produzione del prossimo anno sarà Tannhäuser e verrà diretta dal moscovita Valery Gergiev, direttore principale della Münchner Philharmoniker. A interpretare il ruolo del protagonista sarà Stephen Gould, mentre la 31enne norvegese Lise Davidsen sarà Elizabeth e Ekaterina Gubanova vestirà i panni di Venere. La regia è affidata al tedesco Tobias Kratzer. Poi arriverà sulla collina verde anche la star russa Anna Netrenko che per due recite sarà Elsa nel Lohengrin che ha debuttato quest’anno. Al suo fianco dovrebbe avere ancora Piotr Beczala nel ruolo del cavaliere del cigno, anche se Roberto Alagna ha fatto sapere che sarebbe disposto a tentare la sfida dopo il forfait delle scorse settimane. Inoltre è in programma un concerto in onore di Wolfgang Wagner a cento anni dalla nascita: un omaggio al leggendario direttore del Festival. Il tutto in attesa che nel 2020 ci sia la nuova produzione delle quattro opere che compongono il ciclo dell'Anello del Nibelungo (Der Ring des Nibelungen) e che potrebbero vedere sul podio l’italiano Daniele Gatti, sempre che le ultime vicende con le accuse di molestie non influenzino la scelta.

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