venerdì 6 maggio 2016
​Nel Medioevo non si muovevano solo pellegrini e mercanti ma pure mercenari, sbandati, curiosi.
Viaggiare tra banditi e unicorni
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Non sono troppi, in Italia, gli storici à part entière: quelli che dominano seriamente la ricerca d’archivio ma non per questo trascurano la dialettica storiografica; che mostrano di sapersi avventurare nei pericolosi meandri della storia generale ma al tempo stesso accettano la sfida della microstoria; che si mostrano fedeli alla storia delle strutture socioeconomiche ma nondimeno avvertono il fascino della storia della cultura e delle idee, perfino di quella che per breve intenso periodo è stata definita «delle mentalità». Da noi, ad esempio, il compianto Vito Fumagalli ne era un esempio splendido. E oggi, se ne dovessi cercare altri almeno tra i medievisti, penserei a pochi nomi tra cui senza dubbio Maria Serena Mazzi. Pistoiese, laureatasi con un’impegnativa tesi di storia della storiografia che nel giorno della discussione la condusse a un serrato dibattito nientemeno che con Ernesto Sestan, la Mazzi ha poi scritto di storia della sanità e dei costumi sessuali, di questioni della corte estense quattrocentesca, di esecuzioni capitali, di cose toscane e anche di viaggi medievali: non solo pellegrinaggi, non esclusivamente viaggi di mercatura o di avventura.  Se si dovesse definire il suo ultimo corposo libro, dovremmo parlare di un vero e proprio saggio di antropologia storica del viaggiare: un’indagine generosa, a 360 gradi, nella quale si prendono in considerazione le differenti tipologie dell’esperienza odeporica in Oriente come in Occidente: viaggiatori professionalmente e diciamo così esistenzialmente obbligati a esser tali (pastori transumanti, stagionali che nei tempi morti dell’attività agricola o pastorale si trasformano in soldati mercenari, ma anche sbandati e girovaghi di vario genere), «cavalieri erranti» – che c’erano sul serio, non è un’invenzione letteraria, fuorilegge –, frati mendicanti, eretici, banditi nel senso etimologico (cioè colpiti da un bando per ragioni politiche) e banditi nel senso corrente, avventurieri, curiosi. Ciò anche al di là dei caratteristici viaggiatori, i mercanti e i pellegrini, che evidentemente hanno un posto a parte nella trattazione come lo ebbero nella realtà delle cose, ma che sono lungi dall’assorbire e dall’esaurire tutta la ricca, complessa tipologia del viaggiatore medievale. Del resto, non si trattava di categorie chiuse: un mercante poteva essere anche un pellegri- no, un pellegrino poteva anche essere un fuorilegge, un clericus vagans poteva in realtà essere un semplice girovago e un girovago per contro un tenace cercatore di verità e di libertà. La vera protagonista di questo bel libro, in realtà, è la strada: un universo, che si prolunga anche nelle rotte marittime. E il viaggio dà luogo a una vasta letteratura cronistica, descrittiva, trattatistica. Ma non si deve pensare a un libro che concede spazio all’aneddoto, se non – peggio – al bozzetto. Al contrario, la Mazzi è semmai una sistematizzatrice implacabile, una classificatrice ordinata e ostinata come un entomologo. Nella prima parte («Andare per il mondo ») i due densi capitoli in apertura e in chiusura sono dedicati a «Il viaggio come idea» e a «Le condizioni materiali». L’esperienza del viaggiare è difatti multiforme: e i viaggiatori attorno alla propria stanza o biblioteca, i cosmonauti dell’immaginario, sono altrettanto importanti dei puntuali, preziosi cronisti che descrivono solo quel che vedono (e che del resto vedono cose che non si sa quanto corrispondano alla realtà, lasciando a noi il comprendere se davvero erano così e se davvero le hanno viste).   Il discorso riprende, più affascinante e serrato, nella seconda parte, «Tra immaginazione e realtà», dove si affronta la descrizione del mondo «sconosciuto» e dell’incontro con l’«Altro», che poi sono gli altri. Qui si mostra come la conoscenza teorica desunta dalla trattatistica entri in conflitto con l’esperienza, creando una girandola di cortocircuiti. Noi moderni crediamo principalmente all’esperienza, perché su ciò si fonda la nostra scienza: ma quanta gente del passato ha potuto in perfetta buona fede testimoniare di aver visto volare una strega? Per contro, se nel medioevo la scienza si fondava principalmente sulle auctoritates, come si poteva credere che l’unicorno fosse un brutto bestione – il rinoceronte – e non un leggiadro cavallo dal corno dorato come tutti lo avevano sempre descritto? Il conflitto tra l’immaginario di fuori – quel che si vede – e l’immaginario di dentro – quel che si crede – e le composizioni tra i due mondi sono forse uno degli aspetti più interessanti di questo libro divertente quanto al contenuto, ma estremamente serio e problematico nell’assunto.
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