«La prima volta che ho camminato, ho pianto dal dolore. La prima volta che ho corso, ho pianto dalla gioia...», racconta Giusy Versace, 33 anni, la prima sprinter italiana amputata a entrambe le gambe. Nata a Reggio Calabria, ma milanese d’adozione, è la nuova promessa dell’atletica italiana, scoperta dal ct del comitato italiano paralimpico Alessandro Kuris e che a giugno, ai campionati italiani di Imola, ha corso i 100 metri in 19’’90. Fra qualche settimana potrebbe essere allenata da Oscar Pistorius. «Spero - dice Giusy - di riuscire ad incontrarlo, come promesso a Imola. Sarebbe una grande occasione poter ascoltare i suoi consigli. A settembre comincio gli allenamenti per la qualificazione alle Paralimpiadi di Londra 2012...».Tra due anni ai Giochi londinesi, la Versace sarebbe la prima europea a correre con entrambi gli arti artificiali. Oltreoceano le colleghe Shea Cowart e Aimèe Mullins sono già delle star. Per loro e per Pistorius, però, camminare e correre su due arti artificiali è la normalità, essendo stati amputati nell’infanzia.«Se perdi le gambe da adulto, invece è diverso - spiega Giusy Versace -. dopo due anni di riabilitazione il mio cervello non ricordava più nemmeno il movimento del correre, il ritmo delle braccia. Ecco perchè quando sono riuscita a mettere le protesi che permettono di correre ho pianto dalla felicità...». Cinque anni fa l’incidente terribile d’auto. Una curva presa male sotto la pioggia e un guard-rail che tronca di netto le gambe a Giusy mentre stava raggiungendo un atelier di moda. Ora il cognome Versace è un inevitabile rimando alla casa di moda. Giusy infatti lavorava nell’azienda di famiglia. Per i patiti delle parentele: suo padre è cugino di Santo e Donatella.
Bella, ricca, famosa. Era anche un po’ viziata?«Lavoravo 14 ore al giorno, non vivevo di rendita. Partivo, è vero, da una posizione privilegiata, ero una tipica giovane in carriera. Avevo trascorso un anno a Londra dove avevo vissuto facendo la babysitter, la cassiera ai takeaway e intanto perfezionavo la lingua inglese».
Bella, ricca, famosa. Oggi anche disabile...«La disabilità è negli occhi di chi guarda. Ci sono cose più difficili da fare in autonomia. Ad esempio prendere il metrò. Con le mie protesi cammino ovunque, ma rischio di cadere se la folla mi urta».
Ogni anno lei parte con l’Unitalsi di Reggio Calabria per Lourdes...«Sono sempre stata devota alla Madonna. Ricordo che durante l’incidente non ho perso conoscenza, provavo un dolore indicibile e ho iniziato a recitare l’Avemaria e alla frase “piena di grazia” mi fermavo già, non riuscivo a ricordare le altre parole. Mi facevo forza toccando l’anello-rosario che avevo al dito dall’età di 12 anni. Mia zia è una volontaria di Unitalsi di lunga data e le ho promesso che se fossi sopravvissuta, sarei andata con lei a Lourdes».
Da pellegrina a volontaria, il passo non è breve?«Lourdes è un luogo speciale che non descrivo, invito a andarlo a visitare. Quando ho chiesto di potermi rendere utile mi hanno messo in caffeteria. Ero delusa e rassegnata. Per me aiutare significava spostare carrozzine, accompagnare i malati, non servire caffè... Invece poi ho capito che anche lì ero utile e potevo incontrare gente con una gioia negli occhi indimenticabile».
Se le dico: scarpe col tacco, a cosa pensa?«Avevo gli armadi pieni di scarpe tacco 10 e 12. Le gambe erano la cosa che più mi piaceva del mio corpo. A volte mi prende la nostalgia. Anche quando guardo le vetrine, soprattutto d’estate».
Usa le protesi anche per la vita quotidiana, oltre che per correre?«Sono le mie gambe adesso, le metto al mattino e le tolgo al sera. Se curo bene il moncone. Altrimenti diventano dolorose, basta che il pezzo naturale si gonfi un poco o abbia anche solo un graffio. In questo sono molto precisa, per il resto sono piuttosto spavalda: le protesi le ho domate bene e pretendo che facciano quello che dico io».
Lei lavora sempre nella moda. Ma per la concorrenza. È tornata a essere una donna in carriera, perché impegnarsi anche nello sport agonistico?«Vorrei che più persone disabili conoscessero l’effetto positivo dello sport. Anche praticato solo a livello amatoriale. Quando corro nei parchi pubblici non incontro mai amputati. Uscire di casa significa anche rischiare di cadere per strada per via dei sampietrini o dei gradini. Ma si deve vincere la paura e la vergogna. Appena ho potuto, ho ripreso a guidare l’auto e vado pure in spiaggia».
Sa di avere un forte impatto mediatico?«Spero di poter contribuire a migliorare la vita di chi ha ridotta mobilità. Per questo lavoro molto con l’associazione “Disabili no limits”. Facciamo raccolta fondi per regalare protesi agli amputati che non se le possono pagare. Ne incontro tanti. Il nostro sistema sanitario nazionale purtroppo fornisce gli ausili di base, ma se vuoi la tecnologia, devi pagarla».