domenica 17 aprile 2011
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Si chiamano "T.riciclo", "Baby boom", "Baby bazar", "La Birba" o più esplicitamente "Secondamanina": sono la nuova frontiera del risparmio, la moda del momento tra le giovani mamme in cerca di novità. Second hand in inglese, seconda mano in italiano, la sostanza non cambia: i negozi di cose usate per bambini nascono come funghi in Italia, preferibilmente nelle città di provincia dove più della pubblicità conta il passaparola. Interi corredini, piumini e salopette, abitini da cerimonia, meglio se firmati, passeggini, marsupi, lettini da campeggio: tutto come nuovo, lindo e pinto, ma a prezzi scontati fino al 50 per cento. Quello che una volta si passava a sorelle, cugine e amiche per i figli arrivati dopo, oggi si vende e si compra, complice lo sfilacciamento delle relazioni parentali, direbbero i sociologi, mentre i demografi parlerebbero di scarsità di bebè ai quali girare gli abiti smessi. Fatto sta che in Italia ormai i negozi di seconda mano per bambini, sulla scia di quello che da anni accade in America e nel Nord Europa, sono diverse decine, da quelli garibaldini che nascono in ordine sparso su iniziativa di mamme-imprenditrici a quelli organizzati in efficientissime catene di franchising, che garantiscono la fase di start-up, l’arredamento dei locali e una base di promozione. Le catene più fiorenti, al momento, sono "Baby bazar" con oltre 30 negozi in Italia, "La Birba" con 14, "Baby Boom" con 11, "T.riciclo" con 10 aperture programmate in un anno e aggressivi progetti di espansione dal Nord al Sud della penisola. Alle frontiere intanto bussa una grande catena francese, pronta a dare l’assalto al mercato italiano con negozi di usato per bambini, che amplierà la gamma dei prodotti: non solo abbigliamento e attrezzature per il trasporto, ma anche materiale per lo sport e giocattoli. Il fenomeno, dunque, è in crescita, ed è riuscito a sfondare le tipiche resistenze materne («Al mio bambino solo vestiti di prima scelta…», «Mai l’usato per mio figlio», «Chissà se questo abito è stato lavato bene…») grazie a una serie di accorgimenti. Gli indumenti sono in perfetto stato, rigorosamente puliti e stirati: come nuovi, insomma. I negozi, poi, non hanno nulla a che vedere con mercatini tipo guardaroba parrocchiali: disordinati, polverosi e, ahimè, impregnati dal tipico odore muffoso di magazzino. No, la tendenza – un po’ paradossale, per la verità – è di allestire delle vere e proprie boutique dell’usato, con scaffalature eleganti, atmosfera accogliente e grandi firme sugli appendini. E, addirittura, profumate… La catena "T.riciclo", imitando un fenomeno tipicamente americano, ha persino creato un aroma dal dolce sentore di biscotto che viene spruzzato nei punti vendita per caratterizzare l’ambiente. Eccessi? Forse, ma il mercato va. La crisi economica e il desiderio delle famiglie di risparmiare (oltre al fatto evidente e immutabile che i bambini crescono in fretta…) hanno dato impulso a questo tipo di commercio. Ma non è l’unica spiegazione. «Dietro il successo dell’usato per bambini, negli Stati Uniti, Nord Europa, Francia e ora anche in Italia – spiega Massimiliano Monti, 39 anni, padovano, inventore della catena "T.riciclo" – non c’è solo il risparmio per le famiglie, ma anche una sorta di ideologia del riciclo e del riutilizzo che si è via via diffuso. Comprare ai negozi dell’usato è diventato una moda: è trendy far vedere che si è sensibili al risparmio e che, di questi tempi, si possono comprare vestiti firmati per i figli senza svuotare il portafogli. Da noi arrivano giovani mamme con il Suv che propongono per la vendita i loro passeggini in carbonio serie limitata e tornano a casa con il Moncler usato per il bimbo di 4 anni. A guardar bene, c’è anche un risultato educativo: le famiglie, sapendo poi di poter rivendere gli indumenti usati dei figli, si impegnano a tenerli bene, a non rovinarli». Sì, perché il second hand per bambini funziona in modo che chi vende e chi compra può essere la stessa persona: le mamme portano in negozio i vestiti smessi dei loro figli e ne ottengono una quotazione (di solito piuttosto bassa). Se poi dopo 90 giorni la merce non passa di mano, l’opzione più frequente è la restituzione al legittimo proprietario.Ma c’è anche chi, come "T.riciclo", o "Il bosco incantato" di Pescara, destina l’invenduto al Centro di aiuto alla vita più vicino, assicurando un altro risvolto "etico" al business. E qui il cerchio, in un certo senso, si chiude: perché c’è da chiedersi se questo boom dei negozi di usato per bambini, prima a poi, non andrà a intaccare il filone di generosità che in questi anni ha alimentato i guardaroba della Caritas o degli innumerevoli centri di solidarietà parrocchiali e non. Difficile dirlo, ma è certo che anche questo è un segno dei tempi: se donare i vestiti smessi dei propri figli ai poveri è sempre stato un gesto di attenzione e di aiuto, oltre che educativo nei confronti dei bambini, oggi le mamme potrebbero essere tentate di monetizzare anche quello scambio finora gratuito. Con tanti saluti al buon samaritano.
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