martedì 21 giugno 2022
In un’antologia poetica della poesia provenzale in lingua occitana il filologo Francesco Zambon individua una linea che arriva al Dante della Commedia e parte dalla Sacra Scrittura
Il trovatore Perdigon suona una viella

Il trovatore Perdigon suona una viella - WikiCommons

COMMENTA E CONDIVIDI

I provenzali scelti e presentati, con somma cura ed eleganza, da Francesco Zambon in Il fiore inverso. I poeti del 'trobar clus' (Luni, pagine 512, euro 32,00) non sono quelli della «turba di cantori vagabondi che fa folla su l’uscita del secolo decimosecondo», come scriveva il Carducci (Galanterie cavalleresche del secolo XII e XIII). Raimbaud de Vacqueyras, tanto amato dal poeta toscano, quasi precursore del Chisciotte - «venne con il suo liuto e con la sua giga, più tosto a piedi che sur un magro ronzino, e passò, pare, per le scabrose ineguaglianze d’un mestiere soggetto a vicenda continua di stravizio e di fame, d’abiezioni e d’onori» (ivi, III) - non compare naturalmente tra gli eletti di un 'trobar clus' che il critico annovera tra coloro che vollero di poesia fare conoscenza, elezione, modello di eternità, come Bernart Marti: «Non credo che una canzone / frivola, fomentatrice / di peccato e di follia / si possa chiamare intera / (...) // Conosci te stesso, ha detto; / chi questo precetto osserva / non si loda oltre misura» (D’entier vers far ieu non pes).

In un’ampia e argomentata Introduzione Zambon riconduce il 'trobar clus', le «parole serrate e chiuse » (Peire d’Alvernhe) dei trovatori prescelti (Marcabru, Alegret, Marcoat, Peire d’Alvernhe, Bernart Marti, Guiraut de Borneil, Raimbaut d’Aurenga, Arnaut Daniel, Torcafol, Peire Vidal, Bernart de Venzac, Gavaudan, Lanfranc Cigala, Bartolome Zorzi) a una "sapienza segreta" che viene così definita da Guiraut de Borneil: «Oramai parrà un sermone / il mio canto (...) / Ma per consolidarlo cerco / parole tenute a freno, / tutte cariche di alcuni / strani sensi naturali, / e non tutti sanno quali». Dante sarà ancora erede di questa dottrina sapienziale, propria della poesia, quando affermerà nella Commedia: «O voi ch’avete li ’ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani» (Inferno, IX, 61-63).

Tale procedere - ed è questa la parte più ardita e nuova della prospettiva critica di Zambon - si autorizzerebbe del resto da una linea del dettato biblico: «Et posuit tenebras latibulum suum» («e nelle tenebre ha posto il suo nascondiglio», Salmi, 17, 12) che giustifica l’ 'oscurità' delle Scritture, teorizzata da Dionigi l’Areopagita nel De coelesti Hierarchia: è «cosa assai conveniente alle Scritture occulte che venga nascosta mediante enigmi misteriosi e sacri, e che sia resa inaccessibile ai più, la verità sacra e segreta delle intelligenze sovramondane».

La questione resta sempre ancorata all’imperfezione del dire umano, che non potrà mai veridicamente trasporre le verità divine nelle proprie lingue corruttibili (come lo stesso Dante ricorderà in Paradiso, XXVI, 124-129), sicché Giovanni Scoto Eriugena dovrà concludere nelle sue Expositiones in Ierarchiam coelestem: «Allo stesso modo in cui le realtà divine possono essere maggiormente onorate, cioè significate più chiaramente, con negazioni vere piuttosto che con affermazioni traslate, del pari queste stesse realtà divine penetrano meglio e con maggiore efficacia nelle menti umane attraverso similitudini insolite (…) piuttosto che attraverso figure ornate di cose celesti». Più nettamente ancora Ugo di san Vittore affermerà: «Abbiamo dunque qualcosa di cui possiamo dire: Dio non è questo; ma non abbiamo qualcosa di cui possiamo dire: questo è Dio; perché tutto ciò che abbiamo non è Dio» (Commentaria in Hierarchiam coelestem). Il 'trobar clus' allora non è più vezzo ma quasi necessità per salvaguardare integra l’essenza e la durata di poesia: «Nei detti oscuri e nei ragionamenti / mi par convenga / dire senza parole spezzettate' (Peire d’Alvernhe).

Certo scegliere la via ardua del parlar 'cobert' allontana dal pubblico e spesso i trovatori lo riconoscono: «Se vorrò cantare chiuso / credo non avrò rivali, / però devo proprio fare / una canzone leggera » (Guiraut de Borneil, A penas sai comensar). Certo il 'trobar leu' offre più vasta udienza e dà maggior piacere: «Fare nuove melodie / è una bella maestria; / chi sa allacciare parole / belle esercita bella arte» (Bernart Marti); e tuttavia il 'senso celato' più impegna e più ha pregio: «Se mi sforzassi / di poetare facile / sarebbe assai meglio. / E no, non è vero: / ché senso celato / merita stima / e la sminuisce / nonsenso sconnesso [nonsens eslaissatz]» (Guiraut de Borneil, La flors del verjan).

In fondo, la tradizione poetica italiana si è sempre cimentata su questo doppio registro: da un lato il ' trobar clus' raffinato e curiale, di ascendenza provenzale, dei siciliani e stilnovisti, lungo i secoli sino al verso 'scabro ed essenziale' degli Ossi di seppia montaliani; dall’altro la linea popolare della lauda e dei cantari sino all’epica corale del Porto sepolto ungarettiano: «Poesia / è il mondo l’umanità / la propria vita / fioriti dalla parola » ( Commiato). Fauriel, l’amico di Manzoni, fece nel XIX secolo rinascere i poeti provenzali; Carducci (come poi Prezzolini, Storia tascabile della letteratura italiana), discutendo la parola stessa 'trovatore' e 'trovare', concluderà invece perentoriamente: «No. I letterati non trovano essi mai, primitivamente, le forme organiche della poesia; (...) Ogni autorità procede primitivamente e legittimamente dal popolo, anche in poesia» ( Intorno ad alcune rime dei secoli XIII e XIV, raccolto nel volume Archeologia poetica).

Ma le due strade della tradizione non sono poi così divise: perché se Arnaut Daniel, nella sua Canzone di parole piane e rare celebra un dire che va oltre il suo stesso effetto: «Anche se dissipo il raccolto, / vi assale ovunque il mio pensiero; / io canto e valgo / per la gioia che avemmo / prima di separarci»; Ungaretti molti secoli dopo, -riprendendo la stessa formula del gettare e disperdere il seme di poesia - concluderà il suo manifesto di poetica: «Vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde // Di questa poesia / mi resta / quel nulla / d’inesauribile segreto» (Il porto sepolto). Perché in fondo poesia è sempre la miglior dimora: «Son così ricco di buona speranza / che abito in Gioia e vi sto volentieri' (Peire d’Alvernhe, Sobre·l viell trobar e·l novel).

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: