mercoledì 16 febbraio 2022
Il regista premio Oscar nelle sale col documentario “Ennio” svela l’amico compositore, autore delle più celebri colonne sonore: «Mi disse che la musica nel film è importante ma non deve vampirizzarlo»
Lo studio della casa romana del musicista Ennio Morricone (1928-2020)

Lo studio della casa romana del musicista Ennio Morricone (1928-2020)

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L’inizio di Ennio è il ticchettio implacabile e monotono di un metronomo che scandisce i silenziosi passi lungo il perimetro del salone e i successivi esercizi a terra del Maestro. Lo ha voluto così, disteso a sgranchire le articolazioni e a sciogliere i suoi anziani muscoli, l’amico e devoto Premio Oscar Giuseppe Tornatore, regista del potente, commovente e vibrante ritratto di Ennio Morricone. Presentato lo scorso settembre alla Mostra del cinema di Venezia e uscito in anteprima il 29 e 30 gennaio, Ennio è un capolavoro di cinema e di musica, naturalmente, ma soprattutto di amore per entrambe queste arti nella essenza stessa che proprio il genio unico di Morricone ha conferito alla loro somma unione.

Quel metronomo che non dà tregua nella sua ineluttabile corsa dentro al tempo, che sia sonoro o muto, è la simbolica sintesi della tempra artistica di Morricone, nelle sequenze iniziali impegnato però a opporsi all’aggressione del tempo anagrafico al suo (al nostro) corpo fisico, contenitore terreno delle più intime e assolute aspirazioni ideali e spirituali che per il grande compositore non potevano che tradursi in forme ritmiche e in matematiche e ispirate successioni e combinazioni di note.

Tornatore ha cercato, riuscendoci, di rendere tutta questa sublime tensione verso un “assoluto” nei 150 minuti di Ennio, il film-documentario che arriva il 17 febbraio nelle sale italiane a poco più di un anno e mezzo dalla scomparsa a 91 anni del geniale compositore. «Ennio si è raccontato per undici giorni, sei ore al giorno – ha spiegato Tornatore –. Gli ho lasciato percorrere una linea narrativa libera, non ho mai interrotto il suo pensiero e lui non ha posto nessun veto, lasciandosi andare anche a rivelazioni dolorose, a partire da quella relativa alla sua condizione di isolamento da parte dei colleghi che consideravano sconveniente prestarsi al cinema, tanto che quando finimmo mi disse: “Mi è sembrata una lunga seduta di psicoanalisi”».

Non sono poche infatti le volte in cui gli occhi di Morricone si inumidiscono e la voce si incrina. Filo rosso di questa costante commozione è il ricordo delle umiliazioni vissute, a partire da quando suonava la tromba (lo strumento del padre musicista) nei locali di Roma per gli americani per portare a casa la pagnotta. L’umiliazione patita al Conservatorio dove era pressoché l’unico non di famiglia benestante. Ma soprattutto l’umiliazione avvertita quando aveva cominciato nei primi anni Sessanta a fare l’arrangiatore per la Rca e si sentiva in colpa per aver “tradito” l’accademismo del suo maestro Goffredo Petrassi (dapprima contrariato dal cedimento dell’allievo alla cosiddetta musica leggera, ma poi orgoglioso e persino pentito del suo preconcetto snobismo) e degli altri esponenti di certa musica contemporanea d’avanguardia.

È stato anche per questo motivo che dei primi film western Morricone ha firmato la colonna sonora con degli pseudonimi, finché ha ritrovato il suo vecchio compagno di scuola Sergio Leone e con Per un pugno di dollari nel 1964 è partita la rivoluzione del rapporto tra cinema e musica. «Ennio aveva la giusta opinione che la musica nel cinema fosse importante ma che non dovesse mai vampirizzarlo» sottolinea Tornatore ammettendo però che in Ennio ha dovuto infrangere questa regola perché il personaggio giganteggia sia nelle testimonianze raccolte sia quando prorompono le sue composizioni.

Ed è una carrellata di grandi emozioni mentre scorrono in un tutt’uno suoni e immagini, dal binomio delle meraviglie con Leone (terminato con C’era una volta in America nell’84, vent’anni dopo il loro primo western) alla collaborazione con Elio Petri, da Metti una sera a cena con Patroni Griffi («io non ero convinto del tema principale, ma il regista mi ha detto se ero matto» svela Morricone dando ulteriore prova di una quasi fanciullesca inconsapevolezza del proprio genio) alle imprese oltreoceano di Mission con l’Oscar scippatogli tra le proteste a favore di Herbie Hancock fino a quello vinto con Tarantino (oltre a quello alla carriera). A esaltare il tutto, un montaggio magistrale con una miriade di testimonianze (da Gianni Morandi a Clint Eastwood, da Springsteen a Bernardo Bertolucci, da Giuliano Montaldo a Roland Joffè) inframmezzate a spezzoni di film e note immortali.

Per dirci ancora una volta quanto nella scrittura di Morricone ci sia una innovativa rottura dei tradizionali schemi dell’armonia classica, di tale portata da aver dato un’impronta inconfondibile alla musica del 900. Un uso mai osato prima in quel modo di accordi e intervalli cromatici, come per esempio in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e in La classe operaia va in paradiso di Petri o ne La piovra. Col tempo i suoi due linguaggi musicali (il suo concetto di musica assoluta e le colonne sonore) hanno fatalmente finito per convergere sfociando, per esempio, nel finale della Missa Papa Francisci in una sublime citazione del tema di Mission.

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