mercoledì 29 aprile 2009
Il pensatore mette in guardia dall’idea di una civilizzazione raggiunta per sempre: nella storia ci sono stati più volte passi indietro.
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«La tolleranza è una virtù, a condizione che sia chiaro in partenza lo zoccolo duro di ciò che è considerato come intollerabile». Per lo storico delle idee e saggista Tzvetan Todorov, è questa la "linea di demarcazione" oltre la quale ogni relativizzazione culturale dei valori diventa una pericolosa deriva relativista, capace persino talora di tramutare in barbarie ciò che è in apparenza civiltà. Il noto studioso francese di origine bulgara approfondisce di nuovo il tema dell’altro e della convivenza nel saggio La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà, appena edito da Garzanti.Professore, per lei la civiltà è innanzitutto la capacità di riconoscere l’umanità nello sguardo degli altri e degli stranieri. La civiltà è dunque qualcosa di fragile?«Sì. In molte lingue, il concetto di civiltà è divenuto quasi un sinonimo di cultura. Ma sussiste una differenza, ben percepibile nell’aggettivo civile. Nella sua essenza, la civiltà coincide con un atteggiamento morale che non è mai acquisito in modo definitivo, né da parte di un individuo, né da parte di un popolo. Chiunque può attraversare periodi marcati dall’egoismo e dall’egocentrismo, talora al punto da non riconoscere più l’umanità degli altri e di preferire la loro discriminazione. Se guardiamo alla storia, anche i popoli attraversano fluttuazioni simili, con atteggiamenti talora prossimi alla barbarie ad esempio di fronte alle proprie minoranze etniche. Prendiamo il caso del Paese di cui sono originario, la Bulgaria. Durante la Seconda guerra mondiale, è stato esemplare almeno per un aspetto: nessun ebreo venne deportato. Ma quarant’anni dopo, i bulgari hanno espulso e maltrattato la propria minoranza turca».A che livello nasce la civiltà?«Non potrà mai essere solo un portato delle istituzioni statali. Sul piano personale, questa capacità di civilizzarsi mi pare innanzitutto una questione di lucidità. Consiste nella scoperta che ciascuno di noi non può vivere senza gli altri e che gli altri possiedono le chiavi della nostra felicità. A livello collettivo, tutto ciò diventa meno evidente. Ma abbiamo ormai appreso che le epoche più gloriose nella storia di ogni cultura sono quelle di apertura verso gli altri popoli. Si può dire invece il contrario delle epoche di autarchia».Storicamente, com’è nata questa forma di lucidità collettiva?«Ben prima dell’illuminismo, che talora rivendica la nascita di uno sguardo universalista, esso è già presente nelle grandi religioni mondiali, e soprattutto nel cristianesimo. Non occorre dimenticare anche i contributi di correnti filosofiche antiche come lo stoicismo, che ha una visione degli altri tale da non sminuirli, da non svalorizzarli. Già nell’antichità, c’era chi rifiutava di far coincidere lo straniero con il barbaro».Eppure, accanto all’ideale di una "civiltà planetaria", si affaccia oggi lo spettro della "barbarie planetaria"…«Fin dall’antichità, anche il concetto di barbaro è duplice. È chi parla male la nostra lingua, lo straniero. Ma anche chi ha comportamenti inumani, particolarmente crudeli e violenti. Oggi più che mai, di fronte al terrorismo, abbiamo interesse a sottolineare questa seconda accezione. Ma senza dimenticare, al contempo, che nessun popolo è immune per sempre dal rischio di scivolare nella barbarie. Lo si è visto nel Novecento nel cuore dell’Europa così civilizzata. E anche in quest’inizio di secolo, in diversi Paesi occidentali come gli Stati Uniti, con l’estensione e legalizzazione della tortura in nome talora della lotta contro la barbarie».A proposito degli Stati Uniti, la missione nella storia di cui questa grande potenza si sente investita pare ad alcuni come una forza e ad altri come un rischio. Che ne pensa?«Non credo che ci sia un rischio direttamente legato a quest’aspetto culturale americano. Che lo si voglia o no, stiamo entrando in un mondo multipolare in cui ogni grande insieme politico eserciterà una certa capacità di attrazione. È il caso dell’Unione europea, anche se potrebbe essere ben più unita. Pure la Cina, di cui deploro personalmente il residuo ordinamento comunista, eserciterà probabilmente un’influenza, almeno in alcuni Paesi. Se oggi abbiamo spesso lo sguardo puntato sugli Stati Uniti, è naturalmente perché restano la più grande potenza, innanzitutto sul piano militare. E ogni grande potenza può avere tentazioni egemoniche».Certi storici che si definiscono realisti sostengono il carattere inevitabile di una corsa all’egemonia fra le grandi potenze… «Non sono fra questi, anche se ammetto che c’è sempre una parte di speranza in simili analisi. Credo che una certa lucidità, una migliore conoscenza del mondo possa impedire oggi l’emergere di regimi pronti a inseguire il miraggio del controllo del mondo. I grandi blocchi metteranno forse del tempo prima di abituarsi alla pluralità. Ma sarà sempre più difficile immaginare un unico centro di potere».In questo quadro, lei sostiene che l’Europa può giocare un ruolo importante. Perché?«Perché l’Europa resta forse la parte del pianeta con la più forte concentrazione di diverse identità nazionali ed etniche. Si può pensare che storicamente questa è già stata una delle fonti del dinamismo europeo. E quest’obbligo di tener conto della pluralità degli altri è una lezione sempre più preziosa nel mondo di oggi».
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