mercoledì 13 aprile 2016
Testori, le parole che trafiggono l’“io”
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C’è sempre una misteriosa attualità nel teatro di Giovanni Testori che consiste nell’affondare, con le parole, nelle radici della complessa materia umana, superando il tempo e la lingua. E c’è sempre un’attesa piena di tensione nei suoi drammi che si trasforma ogni volta in un grido, in una domanda lancinante di verità capace di spezzare, come lui stesso diceva, la «crosta dell’io». Si tratta di una modernità che traspare anche in una delle sue opere più difficili da rappresentare: La monaca di Monza, ricostruzione introspettiva e personale della vicenda di Marianna de Leyva, un lavoro che lo scrittore di Novate Milanese ultimò nel 1967 attingendo notizie dagli atti del processo ecclesiastico a carico della suora, che prese i voti con il nome di Virginia Maria, già vicaria del monastero di Santa Margherita in Monza. Un faldone che l’arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini, aveva deciso con grande coraggio di rendere pubblico integralmente, il 12 giugno 1957, togliendo così ogni velo alle “sozzure” e agli efferati delitti compiuti in un convento di clausura del popoloso borgo brianzolo ai primi del Seicento. Non solo una denuncia, però, la scelta del futuro Paolo VI, quanto un modo per esaltare il valore della misericordia, visto il perdono concesso dal cardinal Federigo Borromeo di fronte al tormentato percorso di redenzione di suor Virginia, murata viva per tredici anni in una cella larga due metri per tre. Testori maneggia la stessa storia raccontata dal Manzoni nei Promessi sposi ma senza velleità romanzesche né censure morali: va oltre, e può farlo, documenti alla mano. Pur avendo come riferimento letterario “il gran lombardo”, non si ferma alla «sventurata» e ottocentesca Gertrude manzoniana che «risponde» al temerario cenno di Egidio oltre la grata. Non gli interessa la storia in sé. Altro è il suo compito: figlio ribelle dei suoi tempi, Testori è preso dall’urgenza del vivere e dell’immedesimarsi nel dolore – e nel peccato – altrui, con le parole della drammaturgia che gli erano congeniali. Piuttosto, lo scrittore è attratto dal mistero (anche qui, come in tutto il resto della sua opera) della «fanciulla malmonacata», dal tormento della «cristiana malmessa». E soprattutto dal conflitto lacerante tra spirito e corpo, tra fede e carnalità, che il personaggio contiene.Della testoriana Monaca di Monza abbiamo visto la settimana scorsa, al Teatro Sala Fontana di Milano, una coinvolgente e passionale versione, in esclusiva nazionale assoluta, curata da due giovani registi e interpreti, Yvonne Capece e Walter Cerrotta, produzione (S)Blocco5 (a Bologna e in altre piazze nella prossima stagione teatrale). Un atto fedele al poeta. Il fumo della nebbia («un niente umido e denso fatto di gocce») avvolge anche gli spettatori mentre entrano in sala, i chiaroscuri delle luci richiamano atmosfere caravaggesche, voci rieccheggiano fuori dalla scena in un intreccio di ricordi, fantasmi e cattive coscienze. Sul palcoscenico la suora e il suo amante parlano, tramano e fremono muovendosi in mezzo a un trono e a tre panche, emblemi del potere e della penitenza. La notte scende su Monza e sul giardino del conte Osio. Ed è come se il buio del peccato calasse sul mondo intero. Un’intensità fisica e gestuale sorretta da un testo lirico e potente. Perché qui «è la carne che si fa parola», sostiene Testori, rovesciando quasi blasfemamente, il versetto del Vangelo di Giovanni. Intrighi, vendette, sacrileghe passioni, il corpo come merce di scambio. E, alla fine, il dolore per una verità impazzita. «Il verbo s’è fatto carne – urla suor Virginia svelando il senso del dramma – e tu lo sai, Dio di materia e di sangue, che ci guardi in questa notte di sortilegi e di paure. Ma adesso è la carne che si alza per farsi verbo, a chiamare in giudizio Te, i tuoi disegni, la tua stessa natura». Una “bestemmia” a cui segue, straziante, una richiesta d’emenda che è il suo pianto ultimo e disperato: «Liberaci dalla nostra morte, carne e sangue. Mi senti? E liberami, Cristo!». Suor Virginia, un’eroina maledetta, proprio come l’Arialda, che lo scrittore aveva portato in teatro sette anni prima con la direzione di Luchino Visconti sfidando censura e “benpensanti” di allora. Testori, al quale nulla è mai sfuggito della natura femminile, vergò il profilo psicologico della sua monaca ritagliando il personaggio sulla grande attrice Lilla Brigone, che ne rimase commossa e volle strenuamente andare in scena, nonostante i forti dissidi scoppiati durante le prove tra Testori e il regista Visconti, il quale fece della piéce, contro il parere dell’autore, una sua lettura in chiave moderna, con tanto di canzoni rock e motociclette, accorciando il copione e glossandolo con sue osservazioni che risultarono non gradite. La prima dello spettacolo (anche con Sergio Fantoni e Valentina Fortunato nel cast) rischiò di saltare, l’amicizia tra i due intellettuali, invece, finì.Ma restò pur sempre, La monaca di Monza, «uno scandalo del cuore» che Giovanni Testori non riuscì a tacere, un «grumo dell’esistenza» che solo il teatro, e nessun’altra forma espressiva a lui cara, avrebbe potuto sciogliere. Come si evince dal prezioso libretto curato da Fabio Francione che porta come titolo proprio la frase testoriana, Uno scandalo del cuore (Clichy, pagine 106, euro 7,90), appunto, e che riassume, con ampio corredo di immagini e vari sintetici contributi (tra cui quello di Carlo Bo), la poliedrica produzione e il pensiero dell’autore lombardo, che fu critico d’arte, pittore, romanziere, editorialista e, soprattutto, drammaturgo. Il libro racconta la formazione, gli incontri decisivi (tra cui quelli con monsignor Luigi Giussani e papa Giovanni Paolo II) e, non ultime, la fede e l’approccio cristiano alla realtà che hanno percorso, seppur drammaticamente, tutta la sua vita.
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