domenica 17 aprile 2011
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Correva l’anno 2003 allorché il sessantacinquenne Tiziano Terzani - prossimo al momento dell’abbandono del suo corpo e di ciò ben conscio - intraprendeva, ravvolto nella sua coperta come in un paramento liturgico o in un sudario, l’ascesa mattutina a salutare le "sue" montagne partendo da quello ch’era ormai da cinque anni il rifugio delle sue sempre più frequenti meditazioni, la baita a 2400 metri d’altezza presso Almora nell’Himalaya indiano. Su quell’ascesa, forse l’ultima della sua vita, avrebbe scritto di lì a poco una pagina commossa. Le sue parole sarebbero state lette dal pubblico poco più tardi, nel marzo del 2004, quando egli si era ormai già rifugiato tra le altre "sue" montagne, quelle pistoiesi che circondano Orsigna. Lì attese con serenità il passaggio che ormai da tempo sapeva prossimo e inevitabile: e che avrebbe affrontato pochi mesi più tardi, alla fine di luglio. Ma tra le vette attorno ad Almora e i gioghi alpestri tra le valli dell’Appennino, antico regno di carbonai e di produttori di ghiaccio naturale e artificiale, per Terzani la continuità e l’identità erano ovvie, naturali, fiabescamente reali.Cominciamo dunque da qui: dai giorni estremi della sua vita, ch’egli ci ha narrato con l’aiuto di un testimone d’eccezione, il figlio Folco, nel libro La fine è il mio inizio. Un padre racconta al figlio il grande viaggio della vita (Longanesi, 2006). Qualcuno ha detto che chiunque scriva, e di qualunque cosa, in fondo finisce solo col fare dell’autobiografia; e qualcun altro ha aggiunto che parlar di sé, in un modo o nell’altro, equivale sempre e soltanto a parlare della propria morte. Forse perché questo momento, che la nostra Modernità ha cercato a lungo prima di "addomesticare", quindi di dissimulare o di nascondere dietro imbarazzati silenzi o eufemistiche e apotropaiche perifrasi, non solo è parte esso stesso della vita, ma ne è in certo modo l’acme, l’istante rivelatore: la hora de la verdad, come la definiscono gli aficionados della tauromachia. Dai maestri induisti a Platone ai mistici cristiani, la vita è stata non a caso interpretata come un’attesa della e una preparazione alla morte.La fine e l’inizio: il mistero di un uomo, di un giornalista, di un viaggiatore innamorato della vita e anche della politica intesa come sforzo per migliorare il mondo, che per mesi affini lo spirito fino a raggiungere la condizione di anam (in sanscrito "anonimo": colui che rinunzia al suo essere individuale e al suo stesso nome per accedere alla meditazione assoluta), salvo poi rientrare in limine, quando le forze vitali stanno per abbandonarlo, nel suo paese d’origine. Nato a Firenze nel 1938, Tiziano Terzani non aveva ancora sessant’anni ed era uno dei giornalisti e scrittori di viaggio più noti in Europa e nel mondo quando, nel ’96, gli fu diagnosticata una grave malattia ch’egli affrontò con il coraggio e l’ottimismo che gli erano propri. Combatté circa otto anni: fiero, vitale, perfino allegro, scrivendo e viaggiando. Cominciò con scelte terapeutiche precise, scegliendo prima New York, quindi San Francisco. Ma nella città californiana conobbe un maestro induista, Swami Dayananda, il quale lo invitò a un corso di filosofia e mistica veda in un ashram, un eremo dell’India meridionale. Il maestro decise che Tiziano era degno di divenire uno shisha, «uno che merita di studiare»: in quell’eremo egli avrebbe passato tre mesi, fra aprile e giugno del 1999, che avrebbe da allora in poi considerato fondamentali per la sua ascesa spirituale e centrali per la sua intera esistenza. Tre mesi bellissimi, che nel libro Un altro giro di giostra (Longanesi 2004) egli descrive magistralmente, con una serenità e una gaiezza che la maggior parte di noi troverà purtroppo - ed è la misura che serve a capire a che cosa ci siamo ridotti - incomprensibile in un appena sessantenne che aveva ricevuto una diagnosi medica che molto probabilmente equivaleva a una condanna capitale. Dall’ashram, Tiziano passò poi al silenzio dell’Himalaya. Ma ai primi del 2004, quando si rese conto che il passo finale era prossimo, tornò dai suoi, in famiglia, sui monti della Toscana: dalla moglie Angela, dai figli Saskia e Folco. E accettò anche di confrontarsi con la gente, tanta, che lo cercava e aveva bisogno di lui. Seppe ricapitolare, in quei pochi ultimi mesi, la testimonianza di tutta la sua vita passata in gran parte tra le guerre e i pericoli dell’Estremo Oriente che aveva testimoniato dal Vietnam alla Cambogia. Parlò di pace e di lotta alla guerra, ma anche di giustizia e di amore per la vita.Ho avuto l’onore di essere amico di Tiziano. Negli anni Settanta collaborai con lui nell’Università di Firenze. Proveniva da una povera, generosa, onesta famiglia fiorentina di tradizioni comuniste: non aveva avuto un’educazione religiosa, per quanto dei valori della fede avesse sempre un grande rispetto e vivesse naturalmente - come tutta la brava gente faceva una volta - la morale cristiana. Ci perdemmo poi di vista, per quanto io continuassi a seguirlo e ad ammirarlo come scrittore: chi ha letto Un indovino mi disse e Buonanotte signor Lenin mi capirà. Lo ritrovai ai primi anni del nuovo millennio: era invecchiato, ammalato, ma sempre lo stesso. Stessa energia, stessa generosità. Ma con una nuova dimensione: una profonda consapevolezza del valore della vita. Non era solo uno straordinario giornalista: era un grande scrittore. Ma non era nemmeno un sia pur eccezionale pacifista: è fuori strada chi tenta di appiattirlo sulla dimensione immanente della "grande anima"; sbaglia chi cerca di farne un guru da new age. La stessa esperienza in un ritiro induista non lo aveva "convertito" a una religione diversa dal cristianesimo: gli aveva insegnato l’immensa ricchezza del vivere appieno la propria esistenza e del donare gioia e speranza agli altri. Quel che aveva appreso ripensando alla sua vita e alle persone care che gli stavano attorno è che nessuno può bastare a se stesso e che la morte può, ma proprio per questo non deve far paura: aveva superato di slancio quell’individualismo ch’è forse il peggior male dell’Occidente moderno, aveva imparato che la vita è il grande dono e il grande patrimonio dell’uomo e che non si deve aver paura perché essa è infinita.Non voglio far del mio amico Tiziano un convertito perché rispetto le sue scelte e il suo silenzio. Voglio però testimoniare, da cristiano, che pochi come lui riuscivano, con la sua stessa presenza e con la testimonianza del suo dolore e del suo coraggio, del suo amore e della sua gioia, a far sentire la presenza viva del Cristo nel mondo, nella natura, nella storia. Questo è il grande regalo che egli ha saputo fare ai credenti ma, credo, anche agli altri. Il resto è Mistero.
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