L’Aquila devastata dal sisma del 6 aprile 2009. Sotto, le case di Collemare di Sassa (Ansa/Polizia di Stato)
Può un paese - anzi la frazione di un paese, che conta 80 anime alle porte dell’Aquila diventare l’ombelico del mondo? Sì, perché la densità delle sue interrelazioni è inversamente proporzionale al numero degli abitanti e al decentramento su un remoto altopiano appenninico, dove l’aria della pur prossima capitale non arriva neppure col più capriccioso refolo di ponentino; dove l’universo è tratturale, segnato dalla transumanza, o agricolo, segnato dall’aratro; e dove i collegamenti al mondo (un po’ più) abitato sono garantiti dalle fermate degli autobus per l’Aquila, o da rare automobili. Questo è il mondo di Gli 80 di Camporammaglia (Laterza, pagine 140, euro 15,00) che Valerio Valentini - classe 1991, laureato in lettere e giornalista per varie testate tra cui il 'Corriere della Sera' - tratteggia con cognizione di causa per esser nato e vissuto 19 anni a Collemare, qui ribattezzata Camporammaglia. Ecco dove ha imparato a usare il microscopio con cui mettere a fuoco le sgarrupate, vivacissime dinamiche di questa realtà, elevandola a simbolo universale, e senza alcuna pretesa di farlo. Le dinamiche osservate sono più violente in quanto sul vetrino sono stati messi a reagire elementi omologhi.
Meglio, anzi, omonimi: nel senso, avverte l’autore, che «Marinelli, De Marco e Michelini sono gli unici tre cognomi presenti a Camporammaglia. E anzi: a voler essere rigorosi, già i De Marco sono un’intromissione piuttosto recente, di quando - una trentina d’anni fa - un paio di piacenti figliole di Camporammaglia si andarono a far scegliere, una appresso all’altra, da due ragazzotti, tra loro cugini, di Foce di Sassa. Liquidati dunque i nuovi arrivati, non restano che Michelini e Marinelli». I quali «si parlano, si sopportano, si sposano, ma restano divisi da una indefinibile diffidenza reciproca, da un sospetto animalesco che ciascun camporammagliese inconsciamente metabolizza dagli anni dell’infanzia». Queste due frasi riportate in copertina ben introducono al tono surreale e divertito della narrazione. Ma potrebbero indurre in errore, trasmettendo l’idea che il libro faccia solo ridere; chiave di lettura legittima (il romanzo è anzi irresistibilmente comico nei ritratti dei vari personaggi e del loro accigliato rapportarsi alla vita), purché non reclami di essere esclusiva. Perché ciò di cui scrive Valentini ha, dietro il sorriso, la severità di uno studio scientifico, condotto isolando un campione di umanità per riportarne i comportamenti: predatori, riproduttivi, etilici, competitivi, transazionali nell’ambito del branco e via dicendo. Tutta l’animalità locale, insomma, è qui coniugata nelle forme di un sorridente homo homini lupus, quanto mai intonato all’habitat abruzzese, e che si alimenta, anche a generazioni di distanza, di contese sui confini tra i campi, di fidanzate sottratte, di testamenti contraffatti, di beni che ogni beneficiario reclama invariabilmente essergli stati attribuiti in misura inferiore al dovuto.
Ma un tratto unisce tutti i camporammagliesi, almeno fino allo smottamento di coesione prodotto dalla prima, tardiva irruzione del consumismo: la certezza che le sibaritiche degenerazioni aquilane - dove i ragazzi non indossano maglie fatte coi ferri dalle nonne, perché lì si comprano i maglioncini griffati; dove le scarpe di vacchetta fatte dal calzolaio sono soppiantate dalle Nike - mai attecchiranno in questa fortezza, Camporammaglia, che 80 guerrieri sono gli ultimi a difendere. Non hanno bisogno del voluttuario, loro. Sono spartani e sostanziali, più dei siloniani abitanti di Fontamara. E se alle prime feste ginnasiali le ragazze ridono di loro vedendoli tutti affilati a una parete a far tappezzeria, con la camicia abbottonata sino all’ultimo bottone, i quatràni (cioè i ragazzi) di Camporammaglia, virilmente, e anche politicamente, se ne fregano: si facciano sotto questi rammolliti di città a tirare su i gazebo sull’aia, come sanno fare loro, per la festa del santo patrono. Fiera di queste coordinate, la monade- Camporammaglia arriverebbe pressoché intoccata al giorno del giudizio, se non sopravvenisse, nella notte del 6 aprile 2009, un evento ben più sconvolgente della prima breccia aperta dal consumismo: il terremoto, che farà franare non solo certe granitiche convinzioni, ma le vecchie mura del paese, mettendone in luce più intime caducità. Ecco allora l’artigiano che, privato del lavoro, prova a impiccarsi; quello che si dà all’alcool; la pazza del paese che, nella tendopoli per terremotati, convinta che il marito sia morto per overdose di pasticche antialzheimer, brandisce un coltello per tenere alla larga i presunti predatori in arrivo a casa della vedova.
Ma soprattutto i più terremotati dentro sono loro, i quatràni come Valentini, diciottenni nel 2009, i quali si vedono all’improvviso privati del testimone di raggiunta maturità, che i più grandicelli stavano per passar loro, non essendoci più un paese dove sfoggiarlo. Il terremoto ha cambiato tutto. Niente è più come prima. E il ritratto che Valentini fa di questa inattesa e traumatica sottrazione di un mondo fino a ieri unico, si fa a questo punto accorato, stranito, pur non rinunciando all’autoanalisi caustica. È la poesia dell’ablazione del simbolo. È il tramonto degli dei dell’infanzia e della prima giovinezza, per far spazio al disincanto della vita. È dunque, in conclusione, un bildungsroman, un romanzo di formazione? Sì. Nella sua vera essenza. Tra i più belli, ben scritti, divertenti e commoventi che da anni si siano letti. Viene da un giovane narratore abruzzese. Se ne attendono le future prove - sulla diversificazione dei registri, la tenuta del plot e altro - ma già in questo primo libro il ventisettenne Valentini fa centro, trasferendo dell’Abruzzo millennial (dopo varie mistificazioni, che hanno voluto presentarlo ora come un mondo dannunzianamente arcaico, ora come una rurale 'Sardegna appenninica', stile Deledda/Murgia) un’immagine vera nei suoi scompensi, saettante nei suoi squilibri: che si alimenta di una ruvida coltivazione delle proprie radici, reali o inventate che siano, e di un tenerissimo cinismo, praticato come antidoto alla commozione.