domenica 7 maggio 2017
Per lo studioso e teologo «il nostro ruolo è ripensare costantemente la Parola per metterla a disposizione della generazione alla quale apparteniamo»
Armando Matteo: noi teologi, costruttori di nuovi ponti
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I teologi? «Per l’opinione pubblica, oggi, sembra che servano solo a preparare i giovani preti, le religiose e i docenti di religione. Ma anche Papa Francesco nella Evangelii Gaudium non sembra riporre grande fiducia in buona parte del loro lavoro raccomandando che non si accontentino di 'una teologia da tavolino' ma abbiano a cuore la finalità evangelizzatrice. Insomma, oggi la teologia sembra in crisi e incapace di superare i propri limiti che sono l’autoreferenzialità, il fare accademia, un linguaggio distante dalla gente. Tutto questo si traduce in una sostanziale incapacità di tradurre il Vangelo in modo che possa parlare alla generazione presente». Armando Matteo insegna Teologia fondamentale all’Urbaniana di Roma. Anche lui, quindi, è, per così dire, lupus in fabula. Ma nel suo ultimo libro Il Dio mite. Una teologia per il nostro tempo (San Paolo, pagine 248, euro 22,00) cerca di dare una risposta a questo evidentissimo strappo fra lo studio del teologo e la vita di tutti i giorni. Lo fa, come dice lui, «ispirandosi» al suo maestro, il grande teologo benedettino Elmar Salmann che, «avendo vissuto il prima e il dopo Concilio in un contesto di cambiamento epocale, ha sempre adattato la sua speculazione teologica per fare in modo che il Gesù dei Vangeli potesse davvero parlare alle persone del suo tempo».

Ma la teologia è proprio così necessaria?

«È utile per dare efficacia al magistero e alla pastorale nei loro ambiti. Senza l’approfondimento teologico il magistero sente di dover intervenire su tutti gli argomenti, si sovraespone e perde di incisività. Allo stesso modo la pastorale rischia di restare confusa dalle sollecitazioni dell’attualità e di non avere il coraggio di scelte significative. Per fare questo, naturalmente, bisogna restituire dignità (attualità) al mestiere del teologo».

E qual è il suo vero mestiere?

«Il teologo è un costruttore di ponti fra il Vangelo e la storia. È chiamato a ripensare costantemente alla Parola per metterla a disposizione della generazione alla quale appartiene. Perché ogni generazione ha una originalità unica e irripetibile. Mai come oggi, per esempio, si è assistito (insieme) a un modo di comunicare così pervasivo, alla possibilità di vivere nel virtuale, a questa evoluzione dell’emancipazione della donna, allo smarrimento dell’identità umana e via dicendo».

Adattare la Parola non comporta dei rischi?

«Il mestiere del teologo non è adattare la Parola al proprio tempo, ma di offrirla in maniera tale che sia comprensibile al proprio tempo. È il mistero straordinario del Vangelo per cui nessuna generazione ne esaurisce la ricchezza perché la sua attualità si rinnova. Nel Vangelo Dio viene incontro a ciascuno in ogni tempo, compito del teologo è risvegliare in ciascuno, nella sua attualità, il desiderio di questo incontro. Per fare questo, come diceva Salmann, il teologo deve essere esperto di umanità, dell’umanità della generazione di cui fa parte. Deve saper dialogare con la storia».

Ma in questa costante opera di riallineamento come si fa a non tradire il cuore del Vangelo?

«Tenendo bene a mente qual è il cuore del Vangelo, cioè l’annuncio che Dio ama ciascun uomo e per ciascuno annuncia l’av- vento del suo Regno. L’amore di relazione che è della Trinità è rivolto a ciascun essere umano. È una verità che tocca l’esistenza ed è compito della Chiesa fare in modo che ogni generazione si incontri con questo annuncio. In quest’ottica il teologo deve saper ascoltare il battito che vibra nel suo tempo».

Pare di capire che quel battito, oggi, non sia stato così bene ascoltato.

«Siamo in un momento in cui l’inculturazione del cristianesimo così come era valida nell’epoca precedente oggi non funziona più. Solo nella misura in cui si cerca di capire questo cambiamento non si rischia di dare risposte a domande che nessuno ci pone. Senza considerare che su molti punti si danno risposte ben al di sotto delle potenzialità».

Per esempio?

«Penso al fatto che sui social si manifesta un forte bisogno di comunità al quale non siamo capaci di rispondere. Non lo è la Chiesa e non lo è la società che continua a proporre un individualismo cinico. Ma penso anche al discorso sul femminile che è stato condizionato dalla stessa spinta individualista e che anche nella Chiesa non si è tradotto nel riconoscere alle donne la loro effettiva e differente capacità di cura e di gestione».

Di fronte a queste 'incomprensioni' epocali, nel libro propone una sorta di rivoluzione della mitezza.

«Il problema dell’uomo contemporaneo è la progressiva presa di coscienza che tutto ciò che considera una conquista della modernità sembra che alla fine si ritorca contro di lui. Ci sentiamo potenti e liberi, ma non riusciamo a portare avanti un progetto di vita minimamente soddisfacente, sopraffatti dalle altrui volontà di potenza e di libertà. Di fronte a questo la virtù della mitezza si presenta come una vera rivoluzione e una soluzione. È la virtù per la quale si entra in comunione con gli altri. Secondo Bobbio è la possibilità di accogliere l’altro nella sua alterità. Questa società ci promette potenza e libertà, ma nei fatti ci rende isolati. Ebbene, la mitezza rompe questo circolo vizioso perché coniuga la libertà e la potenza con la comunione. Come in latino mitis è il punto perfetto di maturazione del frutto, così mite è l’uomo nella sua piena maturità. Il Dio che Gesù ci rivela è in questo senso esemplare: tre persone che vivono nella comunione divina condividendo l’amore di mitezza. La mitezza è lo stile della vera condivisione perché è la capacità di essere più forti della propria forza e più liberi della propria libertà. La mitezza è la pienezza umana di Gesù di Nazareth. È ciò che mette insieme singolarità e alterità. E riferendosi al grande tema dell’amore coniugale e della crisi che sta vivendo, è ciò che rende davvero possibile il ripensare all’amore eterno».

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