martedì 2 agosto 2016
Teatro povero, ricchezza comune
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«La grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, ma da tutt’altre cose», così scriveva in una lettera alla mamma don Lorenzo Milani il 28 dicembre del 1954, venti giorni dopo il suo arrivo a Barbiana, sperduta, sparuta frazione di Vicchio. Proprio negli anni ’50 sempre in Toscana ma 130 chilometri più a sud, nella bellissima Val d’Orcia, oggi cartolina turistica e all’epoca solo fertili ma dure zolle da arare e coltivare per il padrone, un’altra frazione di un altro comune, quello di Pienza, viveva un inesorabile ridimensionamento dovuto alla fuga dalla asprezza mezzadrile verso la rischiosa ma speranzosa incognita metropolitana.In una manciata di anni la popolazione si dimezzò, da 900 a 450 individui fino a giungere alle 202 anime odierne, d’estate, di cui 85 stanziali. Ma la grandezza di queste poche decine di vite non si misura dalla grandezza del luogo in cui si svolgono, ma da tutt’altre cose: solidarietà, unità, amore per la comunità, caparbietà, creatività. Tutti valori veicolati dal “TPM”, il Teatro Povero di Monticchiello. Così si chiama il borgo, oggi patrimonio Unesco, sopravvissuto alla diaspora contadina, rinato e rinomato esclusivamente grazie all’arte dionisiaca. Sarà una coincidenza, ma mentre il 26 giugno del 1967 don Milani moriva a Barbiana, meno di un mese dopo, il 23 luglio, vedeva la luce L’eroina di Monticchiello, il primo di quella che sarebbe stata un’ininterrotta sequenza di spettacoli estivi fino a oggi: esattamente cinquanta. Ma la singolarità di questo fenomeno non sta solo nella sua cifra artistica, quanto piuttosto nella sua valenza sociologica e antropologica che ha portato frotte di studiosi del teatro e di costumi sociali a varcare le mura medievali per analizzare origini e dinamiche dell’evento. A Monticchiello infatti non si fanno ardite sperimentazioni d’avanguardia, né allestimenti colossali, ma si realizza un corto circuito unico e vertiginoso: ci si rappresenta. “Autodramma” lo definì Giorgio Strehler, una robusta e verace autorappresentazione dei propri dolori e conflitti ogni anno collettivamente setacciati, enucleati e portati in scena da tutti gli abitanti che si fanno attori di se stessi. Anzi, “portati in piazza”, perché non essendoci un edificio teatrale, piazza della Commenda è la loro scena. I paesani-attori sono avvezzi, pertanto, da decenni alla presenza di telecamere, turisti, curiosi, esperti, tutti intrigati da questa fusione fra finzione e realtà (si calcola un’affluenza di 4.000 persone ogni estate e più volte tornarono Fellini, Ronconi e Sordi). Di conseguenza sono smaliziati, ma sempre spontanei e accoglienti. E allora si può entrare a casa di Francesca e vederla ripetere la parte mentre cura le faccende domestiche o salire sulla mietitrebbia di Luchino e aiutarlo a memorizzare le battute mentre falcia il grano. A guidare le prove delle “persone” (anche in senso etimologico di “maschere”) di Monticchiello, a curare il copione, distribuire con sagacia le parti facendo attenzione a non creare malumori e divismi, Andrea Cresti, memoria storica, fattiva e attiva del TPM: «All’inizio scegliemmo il teatro perché ci serviva e ci ha salvato – ammette il regista scavando nei ricordi di mezzo secolo fa –. Mentre si inabissava la cultura mezzadrile e si stava perdendo identità, il teatro ci permise di ritrovarci e resistere. Decidemmo di rappresentare la nostra cultura contadina per ristabilire la verità su noi stessi». E fu così che si innescò una catena vorticosa di paradossi e ribaltamenti: mentre nel mondo il teatro abbatteva la “quarta parete” e invadeva la realtà, a Monticchiello la vita costruiva parete e palco e si faceva teatro; mentre negli anni ’60 dalle campagne soffiava il vento della penuria e della crisi identitaria, nella piazza del borgo senese ci si aggrappava al fenomeno effimero dell’arte teatrale; mentre nella realtà si divulgavano equivoci e praticavano mistificazioni sull’economia rurale, nel luogo deputato della finzione si riproduceva senso e verità.Cinquanta anni di problematiche portate in piazza selezionate in modo rigorosamente assembleare dopo accesi dibattiti avviati ogni anno a gennaio. Questioni locali, come la strenua difesa dell’ufficio postale o la protesta per la costruzione di un “ecomostro”, comunque riflessi, spesso profetici, delle ferite del “paese Italia”. Più che la lacerazione è una sospensione ambigua e inquietante a caratterizzare invece l’autodramma del 2016: Notte d’attesa. Fino al 14 agosto i monticchiellesi sono tutti sul palco non ad attendere Godot, ma febbrilmente e nevroticamente intenti, come un formicaio irrequieto che percepisce l’arrivo di un’imminente tempesta, a sollevare barricate per difendersi da un’ansia non si sa quanto endogena o provocata da oggettivi pericoli esterni. Si sentono assediati, forse da chi vorrebbe recintarli come razza in via d’estinzione in una riserva socio-paesaggistica, o da chi suggerisce la tentazione di monetizzare e “scenografare” la loro realtà utopica. Una notte di veglia, ricca di discettazioni a tratti fumose e involute, ma che alla fine invita all’apertura: giù di nuovo le mura e, come recita l’ultima battuta, «distruggiamo il nemico», ovvero, la paura. «Ci vuole un paese in uscita – riflette Andrea Cresti – partecipare, solidarizzare, può essere pericoloso, ma non c’è altra soluzione». E non sono solo parole declamate ma, come da cinquanta anni avviene a Monticchiello, fuse con la vita quotidiana. La solidarietà è visibile nel Granaio, la sede della cooperativa nata nel 1980 in cui si assicurano ogni genere di servizi per la comunità, dal pagamento delle bollette alla riparazione di elettrodomestici; l’apertura è stata concreta per Ebrima, Abdou e Lamin, tre giovani gambiani che vivono e lavorano in sintonia con i monticchiellesi. Piccoli numeri che rendono grandi le esistenze, intrecci fecondi di vita e arte che rendono necessario il teatro.
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