martedì 17 gennaio 2017
Lo status della disciplina sembrava assestato, invece a rimetterlo in discussione è ora l'intreccio tra memoria e globalizzazione. I saggi di Nora e Gruzinski
C'è ancora posto per gli storici?
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Arrivati alla “svolta” del Terzo millennio, e non ancora abituati ad esso né decisi ad abbandonare del tutto il precedente, ci stiamo chiedendo tutti che cosa dovremo (o dovremmo) traghettare dal passato nel futuro e che cosa invece abbandonare. Molte cose appaiono in crisi: la convivenza tra i popoli, che alcuni decenni fa era quasi un dogma indiscutibile; la politica, che ha definitivamente perduto il suo “primato laico” e si lasciata asservire da economia, finanza e tecnologia; le religioni storiche, insidiate dall’incredulità materialistica da una parte e dai rigurgiti di fanatismo interni a ciascuna di esse dall’altra. Si è detto più volte che lo scorcio del secolo ci aveva regalato la scomparsa delle ideologie: eppure stiamo assistendo invece alla loro rinascita, sotto forma d’insidiosi surrogati. E la storia, sul “senso” e addirittura la “ragione immanente” della quale si era costruita almeno in Occidente l’autocoscienza di due interi secoli, l’Otto e il Novecento? Nella seconda parte del XX secolo essa è sembrata condensarsi, e per più versi cristallizzarsi, nel grande tema della memoria e della sua gestione. Tutta la tradizione storica, da Erodoto in poi, aveva consistito nella disciplina di quell’indistinto continuum che è la memoria: nel dare un senso a quel che del passato è degno di ricordo e quindi nella sua selezione rispetto a quanto non lo è. Ma tale esercizio non esponeva forse (non espone ancora) all’errore e peggio alla manipolazione?

Chi è dunque lo storico? Un imparziale notaio di quel che è accaduto? Un demiurgo che serve i poteri volta a volta vigenti fornendo loro le necessarie giustificazioni? Un interprete della realtà che si pone in termini di mediazione tra potere e passato? Fino a quando la società occidentale ha saputo esprimere sistemi politici e istanze culturali in cui potersi riconoscere, la storia e magari “l’uso della storia” sono stati importanti: e di tale importanza era sintomo e al tempo stesso prova il rilievo conferito alla storia come disciplina fondamentale nell’apprendimento scolastico. Ma ormai la Modernità sembra aver raggiunto il suo ultimo stadio: dopo aver negato un senso alla vita mediante il “processo di secolarizzazione” e all’universo con l’imporsi di una forma d’indagine scientifica che lo ha ridotto a una macchina, ha negato senso anche all’ultima illusione che la sosteneva, la storia, non più intesa come cammino verso al perfettibilità e la felicità immanenti dell’uomo.

E allora? Una risposta lucida eppure piena di angoscia ci giunge da un protagonista della riflessione storica dell’ultimo mezzo secolo: Pierre Nora, membro dell’Académie Française e curatore editoriale dell’impresa dei Lieux de la Mémoire (Gallimard), protagonista della “Nouvelle Histoire” e della diffusione dello strutturalismo. In un suo recente saggio, Come si manipola la memoria. Lo storico, il potere, il passato (traduzione italiana a cura di Palo Infantino; La Scuola, pagine 86, euro 8,50), mette in gioco la sua esperienza e il suo prestigio, partendo dalla sua duplice radice identitaria ebraica e francese, per porre con lucidità e coraggio il problema del rapporto tra potere e passato e della gestione politica della memoria collettiva rivendicando con forza allo storico il diritto-dovere di proporsi come “interprete e intermediario”: un ruolo civico, e perciò stesso etico, al di là di ogni pretesa di “scientificità” della storia in quanto tale. «In un mondo appiattito su un eterno presente, condannato a uno zapping continuo e dominato dai media, quindi a una lacerazione tra Memoria e Potere, lo storico è più necessario che mai». Ma, attenzione!, «saper essere all’altezza di tale compito è un altro discorso».

La necessità di recuperare di continuo la memoria, tutta la memoria umana, e di farne la base per una riflessione che sfidi le incertezze del presente e contribuisca a fornirci una nuova visione del mondo è il tema anche di una robusta monografia di Serge Gruzinski, Abbiamo ancora bisogno della storia? Il senso del passato nel mondo globalizzato (edizione italiana a cura di Maria Matilde Benzoni; Cortina, pagine 151 , euro 18,00). Gruzinski, specialista dei problemi del continente ibero-americano, si è posto da tempo e per tempo il problema della globalizzazione in quanto progressiva adozione di lingue, dottrine e metodi propri dell’Europa occidentale moderna da parte di tutto il resto del mondo. Eppure la straordinaria ricchezza delle varie culture espresse dal genere umano nella sua lunghissima storia non ha potuto venir obliterata dalla pàtina egemonizzatrice impostagli dall’Occidente: e proprio adesso che la cultura occidentale sembra esser divenuta ormai la koinè diàlektos dei ceti dirigenti di tutto il mondo si propone come necessaria (anche per riuscire a dominare i contraccolpi che tale processo ha innescato, uno dei quali è senza dubbio il jihadismo musulmano) una riflessione autenticamente globale sul passato e sul presente. È ancora possibile interpretare alla luce della “camera fissa” puntata su Roma, su Parigi, su Londra, su New York, un mondo nel quale il “testimone egemonico” appare indirizzato a trasferirsi nella mani di russi, indiani, cinesi, iraniani, africani, ibero-americani?

È ancora possibile raccontare la storia della colonizzazione del mondo ponendosi in un modo o nell’altro sempre dalla parte dei colonizzatori, anche quando se ne denunziano le malefatte? Merito di Gruzinski è, fra l’altro, l’aver utilizzato sino in fondo le risorse del cinema non-occidentale – quello cinese, ad esempio – per mostrare il caleidoscopio di coincidenze ma anche di equivoci tra culture diverse, che non si “scontrano”, ma che interagiscono dialogando a differenti livelli e su piani molteplici. Gruzinski ci mostra l’avvento di una nuova storia dagli “orizzonti aperti”, rispetto alla quale è ozioso chiedersi se l’Occidente stia decadendo o se finirà col prevalere nonostante tutto. È alle nuove sintesi che bisogna prepararsi: anche perché sono già in atto, e sta a noi comprenderne i segni. Il presente è un istante: il passato è sempre gravido del futuro, ma non è proiettando un solo passato nel futuro che si vince la scommessa.

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