domenica 26 giugno 2011
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Inaugurata nel 1931– pochi mesi prima che si inaugurasse a New York la mostra sull’«International Style», organizzata da Philip Johnson , che celebrava il trionfo del linguaggio razionalista – la Stazione di Milano, progettata da Ulisse Stacchini venti anni prima, apparve ai giovani architetti di allora impegnati da qualche anno nella ricerca di una via italiana alla architettura moderna, come il relitto di un passato da dimenticare, la quintessenza di ciò che non si doveva più fare perché esprimeva il gusto "borghese" dal quale si voleva rifuggire a tutti i costi, secondo l’insegnamento dei futuristi e della koinè europea degli artisti di avanguardia. Eppure nel 1912 il progetto di Stacchini era in piena sintonia con i tempi, espressione di un modi progettare che i polemisti del tempo avevano definito stile «assiro-milanese» in cui si mescolavano il monumentalismo eclettico con gli influssi di Otto Wagner e della sua scuola viennese. PersinoAntonio Sant’Elia, diventato poi il profeta della architettura futurista, insieme a Italo Paternoster, aveva presentato, proprio nel 1911 un progetto per il cimitero di Monza che utilizzava lo stesso repertorio orientaleggiante. Lo Stacchini, d’altra parte, si poteva considerare all’inizio del secolo uno dei rappresentanti più qualificati del Liberty milanese per aver costruito una serie di abitazioni in cui risaltava il suo gusto della sincerità costruttiva e la sua sapienza nell’uso dei materiali. Gli atrii delle sue case sono tra gli esempi più alti di una singolare fioritura che ha dato una impronta durevole alla immagine di Milano, dove, fiorentino di nascita, formatosi nella scuola di ingegneria di Roma, aveva stabilito la sede elettiva della sua attività. La Stazione, sua opera massima, arrivata al traguardo dopo infinite difficoltà, soffre evidentemente della lunga durata della sua gestazione, vent’anni decisivi per l’affermazione sempre più condivisa di una architettura priva di decorazioni, "funzionale", aliena dall’enfasi retorica, dimensionata sulle necessità funzionali più che sulla rappresentatività e soprattutto "liberata" dall’influsso delle tradizioni, sia quelle locali che quelle esotiche che tanto avevano interessato la generazione di Stacchini. Molti milanesi espressero negli anni Trenta, ma anche nel dopoguerra, un vero e proprio odio verso quella che era stata definita ironicamente «la tomba del viaggiatore ignoto». L’architetto Tedeschi propose di nasconderla costruendovi davanti una facciata di courtain walls, per nasconderne la oscenità. Eppure, io che ho vissuto a Milano una decina d’anni, quando il secolo scorso aveva ormai raggiunto la maturità, ricordo di aver sentito molti milanesi, anche intellettuali come Guido Canella e Aldo Rossi, ma soprattutto gente comune incontrata per caso, che consideravano la stazione come un personaggio rispettabile, in virtù della sua qualità di «architettura civile» fatta perché la gente si senta riconosciuta accolta e celebrata nella sua realtà collettiva, fatta di persone in cammino che si muovono per raggiungere destinazioni lontane. Chissà perché a questo punto mi vengono in mente i quadri di Boccioni che celebrano la folla. Certo la stazione di Milano, in virtù della sua galleria metallica, con quella luce filtrata che cambia continuamente, ma anche con quei saloni altissimi, quelle panche messe lì per riposarsi dopo aver percorso le grandi (forse inutili?) scale, quella galleria d’ingresso così protettiva nei giorni di pioggia e di nebbia, è un luogo che celebra il viaggio, l’allontanarsi come qualcosa di avventuroso e solenne; insomma è un luogo simbolico, una immagine forte che fa sognare l’evasione e tiene lontana la noia.
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