venerdì 15 marzo 2024
Un dialogo tra Helit Yeshurun, israeliana, e Mahmud Darwish, palestinese, creano quello scambio che oggi è interrotto dalla guerra Per lui è anche dar voce alla versione di Troia
Mahmoud Darwish raffigurato in un murale sulla barriera di separazione che divide Israele e Palestina

Mahmoud Darwish raffigurato in un murale sulla barriera di separazione che divide Israele e Palestina - WikiCommons

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Le conversazioni tra scrittori rischiano di essere deludenti. O si procede con un cerimonioso scambio di complimenti, o si precipita nel puntiglio della polemica personale. In entrambi i casi, si rimane perplessi: questi saranno anche bravi con le parole, ma ce la fanno a essere sinceri? Non fosse che per la completa franchezza che lo contraddistingue, il dialogo tra l’israeliana Helit Yeshurun e il palestinese Mahmud Darwish meriterebbe di essere letto con ammirata attenzione. I due non solo dichiarano apertamente il reciproco disaccordo, ma lo fanno nella consapevolezza che un accordo potrebbe non essere mai conseguito. Il motivo è fin troppo evidente, non del tutto prevedibile è il fatto che l’incontro si svolga in ebraico, che per Yeshurun è la lingua madre e che per Darwish la prima lingua straniera con la quale si sia misurato nelle lunghe peregrinazioni dell’esilio. Realizzata nel febbraio del 1996, all’indomani del traumatico assassinio del presidente israeliano Yitzhak Rabin, l’intervista viene ora pubblicata da Portatori d’acqua (portatoridacqua. wordpress.com) sotto il titolo Con la lingua dell’altro e a cura di Francesca Gorgoni (pagine 160, euro 15,00), che traduce dall’originale ebraico, corredando il volume di un ampio apparato interpretativo e iconografico.

Contemporaneamente esce un altro libro di Darwish, la raccolta poetica Non scusarti per quello che hai fatto, risalente al 2004 e ora resa in italiano da Sana Darghmouni e Pina Piccolo per Crocetti (pagine 202, euro 17,00). Come osserva Monica Ruocco nella sua premessa, si tratta di un testo dal valore quasi testamentario (nato nel 1941 in Alta Galilea, Darwish morì nel 2008 a Houston, dove si trovava per un delicato intervento chirurgico): qui più che altrove, infatti, l’autore «affronta il tema dell’inesorabile declino dell’esistenza e del ricordo, che si fa sempre meno tangibile e sempre più immaginario». Anche al centro di Con la lingua dell’altro c’è, del resto, il paradosso crudele di due popoli divisi e uniti dalla nostalgia per la stessa terra.

Quello di Darwish non è un nome ignoto al lettore italiano, che nel corso del tempo ha potuto approfondire la conoscenza della sua opera grazie all’iniziativa di editori come Epoché, Mesogea e Jouvence. Altissimo è inoltre il prestigio di cui Darwish ha goduto e gode in ambito internazionale, anche in conseguenza dell’equivoco latente di cui danno conto, appunto, diversi passaggi di Con la lingua dell’altro. Sui suoi versi, infatti, pesa sempre il pregiudizio di una lettura principalmente politica, derivante dallo status di “poeta nazionale palestinese” che a Darwish è stato precocemente riconosciuto.

Non che i motivi manchino, anche dal punto di vista biografico. Il suo villaggio natale, al-Birwa, viene distrutto durante la guerra arabo-israeliana del 1948, il piccolo Mahmud ripara in Libano con la famiglia, ma meno di un anno dopo i Darwish tornano clandestinamente in Palestina. Il bambino frequenta, come un fantasma, le scuole israeliane, apprende l’ebraico e attraverso l’ebraico inizia a esplorare l’universo della letteratura. Esordisce in poesia prima dei vent’anni, milita a lungo nel Partito comunista, nel 1970 si trasferisce in Unione Sovietica e tre anni dopo gli viene impedito di rientrare in Israele. È il periodo del suo impegno nell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), del cui esecutivo farà parte dal 1987 al 1993.

Dopo anni trascorsi tra l’Europa e il Maghreb, nel 1995 si stabilisce a Ramallah, in Cisgiordania. La conversazione con Helit Yeshurun, direttrice della rivista letteraria Hadarim e figlia del poeta Avot Yeshurun, si colloca in questo contesto, ancora segnato dall’entusiasmo per gli accordi di Oslo, che nel 1993 avevano fatto intravedere la possibilità di una soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese. Il confronto, per quanto serrato, presuppone comunque l’ingresso ormai inevitabile in una fase evolutiva, che dovrebbe culminare nella cosiddetta soluzione dei due Stati. «Una pace vera è un dialogo tra due versioni», afferma Darwish. Il principio che sta alla base della sua attività letteraria e politica è proprio questo: «C’è sempre un altro».

E ancora: «L’altro è una responsabilità e una sfida. Insieme facciamo qualcosa di nuovo nella storia. Il destino ce lo chiede». Da parte sua, Darwish si prefigge di dare voce alla «versione di Troia», ovvero a quella parte del racconto che Omero, avendo assunto il punto di vista dei greci vincitori, ha omesso di rappresentare. Il riferimento a Troia ritorna, non casualmente, in Non scusarti per quello che hai fatto, in un continuo e caratteristico intreccio tra immagini della cultura musulmana, ebraica, cristiana e mitologica («Vivo in un paradiso di simboli», dice di sé Darwish in Con la voce dell’altro).

Esemplare, in questo senso, una poesia come “A Gerusalemme”, il cui incipit suona così: «A Gerusalemme, intendo dentro le antiche mura / cammino da un tempo all’altro, / senza un ricordo che mi orienti. / I profeti laggiù si dividono la storia del sacro / salgono al cielo e tornano meno abbattuti e tristi, / perché l’amore e la pace sono sacri e arriveranno in città ». Nello stesso tempo, però, «tutto quel che hai intorno è dimenticanza: i cartelloni / che risvegliano il passato, sollecitano il ricordo» (da Questa è dimenticanza). Ogni lingua, a queste condizioni, diventa lingua dell’esilio e ogni poesia rimanda a ogni altra, ogni poeta è in qualche modo ogni altro poeta, secondo il dispositivo illustrato in Come un misterioso accadimento, una delle lasse in virtù delle quali Non scusarti per quello che hai fatto rivela la sua intima struttura di poema frammentario. Nella fattispecie, la vicenda del cileno Pablo Neruda si rispecchia in quella del greco Ghiannis Ritsos, fino all’illuminazione finale: «“Se ci deve essere un viaggio, / fa’ che sia / eterno!”».

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