giovedì 7 gennaio 2016
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Curve vuote all’Olimpico di Roma. È proprio una desolazione vedere il principale impianto del Paese snobbato dai tifosi. Il teatro dei Giochi olimpici del 1960, delle notti magiche di Italia ’90 e di tanti duelli calcistici al fulmicotone è oggi uno stadio che non conosce più la famosa espressione «gremito ai limiti della capienza». Il campanello d’allarme era suonato il giorno del derby della Capitale, quando Roma e Lazio si erano sfidate con meno di 30mila spettatori sugli spalti. Da lì in poi ogni domenica è stato un bollettino di guerra. In un anno le due squadre romane hanno perso quasi 6mila abbonati e più di 10mila spettatori a partita. La Roma, in campionato, ha racimolato una media di 31mila spettatori, la Lazio ha toccato il minimo di neanche tremila paganti nel match contro il Frosinone. Se Roma piange, Milano non ride, soprattutto sulla sponda rossonera. Il Milan ha infatti raggiunto nel girone d’andata 34mila spettatori di media, contro i 50mila dei cugini nerazzurri. Numeri importanti se presi in assoluto, ma quasi insignificanti se paragonati con la capienza del Meazza: 80mila posti. Insomma è uno scenario triste quello che fa da corollario alla domenica calcistica italiana. L’ultimo derby capitolino è stato solo la punta dell’iceberg: dalla Serie A alla Lega Pro la presenza del pubblico in tribuna è in discesa. Ormai allo stadio non si va più e di conseguenza strutture nate per accogliere oltre 50mila spettatori si ritrovano piene solo per la metà. Col risultato che la visione è desolante per i giocatori in campo, ma anche per il pubblico da casa. Basta infatti cambiare canale e sintonizzarsi sulla Premier League inglese per capire come uno stadio pieno possa essere di stimolo a gustarsi il match in poltrona. Un impianto vuoto è quindi controproducente per il prodotto sportivo in generale. Più gente è presente sul posto, più lo spettatore da casa è invogliato a seguire l’evento, più lo spettacolo agonistico assume un contorno epico. D’altronde la leggenda del dodicesimo uomo in campo per le squadre dotate di tifoserie numerose non è nata per caso. I primi a capire questo aspetto sono stati gli americani che hanno costruito impianti giganti per ospitare le partite di football della Nfl. In uno di questi, il Michigan Stadium di Ann Arbour, nell’estate del 2014 Real Madrid e Manchester United si sfidarono in amichevole davanti a 109.318 persone. Uno spettacolo per la gente presente all’evento e per quella seduta in poltrona davanti alla tv. Buffo è constatare però come anche il Michigan Stadium – conosciuto come The Big House, poiché è l’impianto più capiente degli States – sappia trasformarsi in una cattedrale vuota. Quando infatti la domenica giocano i Michigan Wolverines non c’è spazio neanche per uno spillo, ma quando il sabato tocca al campionato universitario Ncaa anche un elefante potrebbe trovare posto talmente numerose sono le poltrone disponibili. Pregi e difetti della grande capienza: un vantaggio quando nelle grandi occasioni si raggiunge il pienone, uno svantaggio quando invece l’affluenza è limitata. È però la scelta registica a salvare capre e cavoli, facendo vedere allo spettatore solo lo spicchio pieno. Con buona pace di chi gioca nel deserto, oppure davanti a tante facce finte. Cosa accaduta in passato a Trieste quando sugli spalti del Nereo Rocco furono posizionati teloni con le immagini di finti spettatori. Altro che dodicesimo uomo in campo. Non solo calcio, basta cambiare sport è scoprire dinamiche simili. In Formula Uno per esempio, giusto per restare in uno sport molto seguito dai tifosi italiani, ogni quindici giorni si passa da tribune strapiene a poltroncine vuote. Nel 2015 l’apoteosi si è raggiunta all’autodromo di Città del Messico, dove una marea di spettatori ha seguito il massimo mondiale motoristico tornato dopo ventitré anni di assenza al circuito Fratelli Rodriguez. Sono stati 335mila in tre giorni gli spettatori che hanno assistito dal vivo alle gesta dei piloti di Formula Uno in terra messicana. Sarà stata la voglia di riascoltare il canto (finto) delle monoposto dopo decenni di tregua, oppure la presenza del beniamino di casa Sergio Perez, fatto sta che numeri del genere erano inattesi. La ciliegina sulla torta è stata la scelta di premiare i vincitori non sul rettilineo dei box, ma nell’anfiteatro ricavato in un vecchio campo di baseball. Rosberg, Hamilton e Bottas si sono inzuppati di champagne di fronte a 90mila spettatori seduti in quella che una volta era la temuta curva Peraltada. Chissà se vedendo quelle scene Bernie Ecclestone avrà pensato alle tribune vuote di Malesia, Cina, Bahrain e Russia: gran premi privi di fascino che non riescono ad attrarre l’interesse del pubblico, eppure per ragioni di business continuano a essere presenti in calendario. Autodromi immensi, costati una fortuna, che sono diventate cattedrali nel deserto. E per correre ai ripari e non rovinare lo show, ai registi televisivi è stato imposto di non inquadrare mai gli spalti vuoti. Sai mai che il telespettatore possa rimanere di sasso.
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