mercoledì 2 luglio 2014
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Con Maria Luisa Spaziani l’Italia perde una voce poetica importante, e particolare. Che condivide con tutte quelle più significative del Novecento italiano il rigore poetico, la moralità della poesia: intesa come compito di rivelazione e conoscenza, svelamento e immediato insegnamento all’uomo. Il poeta, in un’età insidiata spesso dal nichilismo, è sempre, una figura di resistente, rappresentante di un pilastro immaginativo e memoriale dell’umanità. La poesia insomma è un fuoco sacro. Fin qui l’affinità fra il poeta Spaziani (“poeta” voleva essere chiamata e rispettiamo, condividendola, la sua più che legittima volontà) e gli altri maggiori del suo tempo, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, e poi Mario Luzi, Piero Bigongiari, Carlo Betocchi, Giorgio Caproni, Vittorio Sereni. Ma a differenza di quasi tutti loro, con l’eccezione di Montale, la poesia della Spaziani può assumere anche toni ironici, sfumature allegramente narrative, insomma mescolare al fuoco lirico (che anche per lei è un assioma) lo spirito saggio e sornione del maestro Orazio, e quel finto disincanto, in realtà un raffreddamento a scopo morale, messo in mostra da Auden. Senza paura di sfociare, o a volte culminare, in versi che rasentano l’aforisma. La saggezza è uno dei doveri della poesia, e la saggezza, secondo Spaziani, implica anche momenti di distacco dalla realtà del sogno e dal furore del fuoco lirico. Sappiamo che questa ricetta è molto diffusa nella sapienza orientale sin dalle origini, e la sua adozione consente alla Spaziani una poesia veramente complessa quanto diretta e immediata: ineludibile la lezione classica, la sapienza di timbro orientale, la concezione moderna della poesia, a cui si aggiunga la metabolizzazione della grande letteratura francese. Maria Luisa Spaziani, che insegnò Letteratura francese all’Università di Messina, è un’importante traduttrice di quella letteratura, ma di più: ha portato un’anima francese, ineffabile, nel suo verso. Qualcosa di fuggente nel momento stesso in cui svela. Tradurre è spesso un segno di ricchezza, internazionalità, complessità culturale di un poeta. Questa ricchezza del suo talento e della sua opera si mostra anche, con eccellenti risultati, nell’approdo alla poesia per il teatro, o teatro poesia, con il poema  Giovanna d’Arco , uno dei momenti in cui, nel secondo Novecento, sulla scia di T.S. Eliot e sul modello recente di Luzi, la poesia sente bisogno di recuperare la sua anima drammatica. Nell’opera della Spaziani coesistono un intenso ardore vitale, epico, sociale, e una forte visionarietà  religiosa. Nata il 7 dicembre 1922 a Torino, da famiglia benestante, studi classici e da giovane la fondazione di una rivista (finanziata dal padre) che la mise in contatto con i maggiori poeti del tempo, italiani e stranieri, borsa di studio a Parigi, ricerca del lavoro per  crack  dell’azienda paterna, una vita movimentata ma segnata sempre, senza esitazione, dalla frequentazione e pratica della poesia. L’incontro con Montale fu un evento centrale, lei, “la Volpe”, è ispiratrice di poesie alcune delle quali leggendarie, come  L’anguilla. Appena possibile si trasferì a Roma. Continuava a insegnare Letteratura francese a Messina, città che amava, come la Sicilia che avrebbe ispirato tante sue pagine. Ma si sentiva cittadina della capitale come solo può un patriota italiano di cultura internazionale, nato in Piemonte. L’attività di traduzione e interpretazione dei francesi costituì un esercizio specifico per un intelletto capace sempre di esplorare la poesia a livello internazionale, e anche la scelta di vivere a Roma, per un poeta nato a Torino, va in questa direzione. È uno dei pochissimi poeti italiani del suo tempo che non abbia un rapporto non dico viscerale, ma nemmeno ufficiale con i luoghi della nascita e dell’infanzia. Conosciamo, nella loro universalità gli entroterra liguri di Montale, le campagne toscane di Luzi, per non parlare di Attilio Bertolucci o della Genova di Caproni. Il paese natale di Maria Luisa Spaziani è il mondo, la sua infanzia e poi la sua gioventù e poi il suo continuo presente sono il mondo. Che facilmente le appariva e si manifestava nella città di Roma, forse perché è la città italiana che consente una più diretta comunicazione, fisica, luminosa, con il cielo. E quella donna anche molto concreta, capace di organizzare realtà importanti e generose, come il Premio Montale, in realtà guardava il cielo. Senza ostentazioni, con stile e un po’ di ironia. Che nei suoi versi peraltro compare in forme sofferte, concentrate, spesso addolorate spesso anche sorridenti. Pare voler attenuare, quella rara, lieve ironia, la forza delle sue limpide visioni, e evidenziare la forza smagliate e senza scampo dello stile. Guardava, si muoveva, conosceva, lavorava, ma sempre, aveva un occhio, o un iorecchio,al cielo: «Fu allora che il destino mi volle prendere per mano, / da questo istante, disse, la tua bianca esistenza / in me si fonde, assume una forma mai vista / da questo istante intuisci l’infinito dei cieli».
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