sabato 27 aprile 2019
L'anglista Enrico Reggiani rivendica il ruolo che il cattolicesimo ha rivestito e ancora continua a rivestire nella ricca tradizione che dal teatro elisabettiano prende il largo nell'Ottocento
Lo scrittore Gilbert Keith Chesterton

Lo scrittore Gilbert Keith Chesterton

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Il gigante c’è e non potrebbe non esserci. Anche i suoi avversari, del resto, lo consideravano un interlocutore irrinunciabile. George Bernard Shaw, che con lui dissentiva su quasi tutto, gli riservava l’ironico eppure lusinghiero soprannome di Quinbus Flestrin: così, nel capolavoro di Swift, i lillipuziani chiamano Gulliver, che per loro è l’«Uomo Montagna». Il colosso è Gilbert Keith Chesterton, si capisce. Quando si affronta il tema della presenza del cattolicesimo nella cultura e, più specificamente, nella letteratura inglese, il pensiero corre subito a lui. Come se le indagini di padre Brown, le avventure del proverbiale Manalive – «l’uomo vivo» che è maschera e portavoce di ogni umanità – e la memorabile vis di polemista bastassero a esaurire il discorso.

Una semplificazione che di sicuro avrebbe infastidito lo stesso Chesterton e della quale rendono ora giustizia i saggi che Enrico Reggiani ha raccolto in «Bellezza cangiante». Cattolici di lingua inglese e letteratura (Vita e Pensiero, pagine 378, euro 30,00). Ordinario di Letteratura inglese alla Cattolica di Milano, con questo volume Reggiani traccia il bilancio di un percorso più che trentennale, distribuito tra «esercizi critici ed elzeviri».

Studi accademici i primi, interventi giornalistici i secondi (apparsi in prevalenza sull’“Osservatore Romano” e sulla testata online Il Sussidiario), ma la distinzione tende ad affievolirsi a mano a mano che si procede nella lettura, tanto è solida la base comune su cui Reggiani costruisce il suo ragionamento.

Riprendendo l’immagine che lui stesso adopera a proposito della fede professata da William Shakespeare, qui il «lato cattolico» tende rappresentare «più un intero perimetro che un solo lato». Non per smentire la storia, si capisce, ma per comprenderla più a fondo, senza pregiudizi.

Quello che accade nel XVI secolo, con lo scisma della Chiesa anglicana, comporta una serie di conseguenze che difficilmente possono essere sottovalutate. Mentre il protestantesimo si impone come luogo pressoché esclusivo dell’esperienza religiosa (non senza contraddizioni interne, come dimostrano le dolorose vicende degli evangelici “non conformisti”), i cattolici si trovano confinati in un ruolo sempre più marginale, del quale vengono risarciti soltanto nei primi decenni dell’Ottocento, con le leggi che finalmente restituiscono loro una piena cittadinanza politica. Non stupisce dunque che – dopo un’interessante incursione medievale, incentrata sulla dottrina escatologica di cui è permeata la poesia inglese delle origini – l’attenzione di Reggiani si concentri proprio sul XIX secolo.

La figura di riferimento è, in questo caso, quella del cardinale John Henry Newman, la cui causa di canonizzazione si è di recente conclusa. La sua conversione al cattolicesimo, maturata all’interno del cosiddetto Movimento di Oxford, si colloca al crocevia tra riflessione teologica ed esperienza artistica. È Newman, infatti, a rivendicare per i cattolici il diritto e, anzi, la necessità dell’espressione letteraria, sia pure nella logica di un’«economia» che armonizzi l’intento compositivo con il contesto circostante. Autore di una celebre autobiografia, Apologia pro vita sua, che basterebbe a sancirne lo statuto di narratore concettuale, Newman fu anche romanziere di successo e poeta di importante levatura, i cui versi non mancarono di colpire lo stesso Chesterton.

Ma il cardinale non fu l’unico letterato cattolico di rango della sua epoca. In «Bellezza cangiante» si indagano i casi di Frederick William Faber e di Aubrey de Vere, di Alice Meynell e di Katherine Tynan. Sta a sé, com’è giusto, la grandiosa avventura spirituale del poeta gesuita Gerard Manley Hopkins, altro convertito eccellente al cattolicesimo. Al suo e a quello di Newman va affiancato il nome di Robert Hugh Benson, autore del profetico romanzo Il padrone del mondo: un altro maestro, avverte Reggiani, la cui lezione stenta a essere recepita, almeno in Italia.

Ricchissimo di scoperte spesso curiose (si pensi all’elogio che l’insospettabile Charles Dickens riserva a san Carlo Borromeo), «Bellezza cangiante» si concentra molto su un altro versante, che integra quello suggerito dalla linea Newman-Chesterton. Si tratta del Novecento letterario irlandese, rispetto al quale il «lato cattolico» assume veramente le caratteristiche del «perimetro», sia pure sempre più frammentato e controverso.

Esemplare, in questo senso, la parabola del romanziere John Banville, che non fa mistero del proprio attuale agnosticismo e nello stesso tempo ammette l’influsso che l’educazione religiosa ricevuta nell’infanzia ancora esercita sul suo metodo di lavoro. Anche tra Dublino e dintorni non mancano i giganti: James Joyce, anzitutto, cattolico renitente in parte smentito da alcuni dettagli rivelatori della sua opera labirintica, e il Nobel Seamus Heaney, al quale sono dedicate alcune della pagine più profonde e toccanti del libro.

Musicista oltre che docente universitario, Reggiani è da tempo impegnato in un’intensa attività di divulgatore che si intreccia strettamente con la sua produzione pubblicistica. Questo spiega, tra l’altro, l’abilità con cui riesce a inserire nel tessuto delle sue argomentazioni l’australiano Morris West, un autore forse meno nobilmente letterario ma di sicuro non meno sintomatico rispetto a quelli finora ricordati (nel 1963, con il romanzo Nei panni di Pietro, West previde l’elezione di un Papa proveniente dall’Europa dell’Est).

Tra un severo contenzioso sulla traduzione italiana di un certo titolo di romanzo e l’entusiastica riscoperta del poeta irlandese Thomas Moore, «Bellezza cangiante » può essere considerato come una lunga, articolata risposta alla domanda che troviamo formulata solo in chiusura: di che cosa parliamo oggi, quando parliamo di letteratura? Un interrogativo che assume un valore particolare se si passano in rassegna i Nobel degli ultimi decenni. Indifferenti alla religione e addirittura sospettosi verso il cattolicesimo, secondo il luogo comune. Ma basta ascoltare – e leggere – con attenzione per accorgersi che perfino l’arciprogressista Doris Lessing non ha disdegnato di rendere omaggio, sia pure in modo obliquo, all’autorità del Papa.

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