mercoledì 15 novembre 2017
In Italia il vero atto di nascita del movimento di protesta avvenne a Milano il 17 novembre 1967 nell’ateneo fondato da padre Gemelli: un’occupazione senza precedenti
L’occupazione della Cattolica di Milano il 17 novembre del 1967 (Archivio storico dell’Università Cattolica )

L’occupazione della Cattolica di Milano il 17 novembre del 1967 (Archivio storico dell’Università Cattolica )

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Si avvicina il cinquantesimo anniversario del “Sessantotto” e sul tema si affacciano già nuove opere in libreria. “Sessantotto”… Anche se poi, ricostruendo i fatti, per l’Italia, bisogna retrodatare di mesi, se non di un paio di anni l’avvio di quel movimento di protesta che cambiò la società.

Il prologo, in apparenza, si può individuare nel ’66. E più che nell’occupazione della Sapienza a Roma, dopo l’uccisione di Paolo Rossi in aprile, nelle due occupazioni di Sociologia a Trento - la prima nel gennaio-febbraio, e la seconda nell’ottobre-novembre - concluse da cambiamenti rilevanti nel corpo docente e nella didattica.

In realtà nel ’67, sono poi diversi gli atenei che fanno da cornice a scene da allora destinate a ripetersi, anche se, all’inizio con un “armamentario” tutt’al più di sacchi a pelo e ciclostili, megafoni e striscioni. Tra il gennaio e il marzo ’67 l’occupazione di Architettura a Milano: ma il dibattito vero non andò oltre le questioni sindacali, il precariato, il rapporto fra didattica e ricerca. Il 7 febbraio oltre settanta studenti (con i loro leader Gian Mario Cazzaniga, Vittorio Campione, Adriano Sofri) occuparono l’Università di Pisa, scelta per ospitare la Conferenza dei rettori italiani con il ministro della pubblica istruzione Luigi Gui: lì si teorizzò «l’università appartiene alla base universitaria, e questo possesso va affermato contro le strutture esistenti che lo negano». Sempre in febbraio, a Torino, ecco l’occupazione della sede di Lettere con duecento studenti portati via di peso dalla polizia. Poi, a inizio novembre, altra occupazione all’Università di Trento, già ricordata per le agitazioni del ’66 con il nascente Movimento studentesco locale (animato da Marco Boato, Mauro Rostagno, Renato Curcio, Margherita Cagol). Il bersaglio? L’organizzazione del sapere accademico ufficiale da spazzare via con forme alternative di didattica. Ma non solo.

C’era ben altro che soffiava ormai nelle aule universitarie. Un vento nuovo, la consapevolezza di una contestazione che non poteva limitarsi alla scuola, ma chiamava all’attacco al potere nelle sue articolazioni. Lotta politica dunque, contro un’università strumento di classe, ma anche il capitalismo, e l’imperialismo, eccetera. E via con le “controlezioni” e le “occupazioni bianche”, o i “controcorsi” ad esempio sui legami con gli operai, ma pure la rivoluzione in Cina o la guerra del Vietnam.

A ben guardare poi, anche per l’adesione numerica e l’ambiente di riferimento, oltre che l’impatto mediatico e le conseguenze in una Italia guidata dalla Dc e con un forte ruolo della Chiesa, il vero atto di nascita del ’68 ha una data precisa: il 17 novembre ’67, a Milano, all’Università Cattolica. In quel momento molti studenti dell’ateneo fondato da Gemelli, non protestano più solo sui corsi di studio, la formazione “autoritaria”, i criteri “classisti” di accesso, e così via ma sono spinti a ridiscutere il sistema sociale nel suo insieme, a contrastare le istituzioni, comprese quelle ecclesiali.

Ad arringare i ragazzi è uno studente, Mario Capanna, poi leader di Democrazia Proletaria. È lui, con i suoi amici, a convincere gli altri dell’urgenza di occupare subito la Cattolica: esattamente come accade quella sera di cinquant’anni fa, anche se quella prima occupazione dura solo sette ore e i settecento studenti coinvolti sono fatti sgombrare alle tre di notte dagli agenti chiamati subito dal rettore Ezio Franceschini.

A fare da denotatore era stato probabilmente l’annunciato raddoppio delle tasse: letto come espediente per trasformare l’ateneo in un’università per ricchi. In realtà la repressione colpì gli studenti quando cominciavano a riflettere davvero anche sul senso e il potere dell’istituzione in cui studiavano, o i rapporti fra scienza e rivelazione, consumismo e vita cristiana.

In ogni caso con quello sgombero nel primo ateneo non statale e la serrata disposta immediatamente, si avviò la serie di manifestazioni (poi sfociate spesso in tafferurgli o drammatiche guerriglie urbane) che scandirono a lungo la vita di Milano, ma anche Torino (la cui università tornò ad essere occupata già a fine novembre), dilagando poi negli atenei di Genova, Napoli, Firenze, Cagliari, Salerno, Padova (occupati da dicembre ’67 ai mesi successivi). Fino all’ondata travolgente del ’68 con gli studenti della Facoltà di medicina della Cattolica di Roma in piazza San Pietro già a metà gennaio. Sui loro cartelli di protesta si potevano leggere frasi come «Dio ci ha dato la libertà, la Cattolica ce l’ha tolta».

L’evolvere della contestazione avrebbe assunto posizioni sempre più massimaliste, atteggiamenti di chiusura, persino giustificazioni nel ricorso alla violenza. Tra il novembre ’67 e il maggio ’68 il rettore si misurò con quattro occupazioni, nonostante l’insediamento alla vigilia del Natale ’67 di una commissione per rivedere lo statuto e allargare il consiglio di amministrazione a tutte le componenti dell’università. Franceschini, però, era già diventato un nemico: per studenti dalle posizioni sempre più radicali, e per le frazioni del corpo accademico ostili all’idea di aprire il governo dell’ istituzione. Era la crisi stessa che si chiedeva fosse istituzionalizzata.

E se lo strappo sembrò arrivare dopo il fallimento di ogni dialogo con le gerarchie (il 5 dicembre il presidente dell’assemblea studentesca della Cattolica veniva ricevuto persino in Segreteria di Stato dal Sostituto Giovann Benelli) e dopo le espulsioni degli studenti contestatori (cominciando da Capanna), di fatto la contestazione studentesca aveva già al suo fianco i gruppi dell’area del dissenso cattolico che si erano posti la questione dell’«accettazione passiva e teorica del Concilio» e della «Chiesa dei poveri».

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