giovedì 2 ottobre 2014
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​Nello sport italiano non si fa che parlare di settori giovanili, di quei vivai che dovrebbero essere la linfa delle nazionali azzurre e, invece, si ritrovano a sfornare atleti da panchina, rincalzi delle folte legioni straniere accampate nel Belpaese. Con le parole si cerca di sopperire a una lacuna ormai radicata nei campi italiani. Troppo faticoso allevare i giovani e anche dispendioso. Si investe oggi per raccogliere, forse, domani. È per questo motivo che si fa fatica a innestare quel circolo virtuoso. Invece bisognerebbe giocare controcorrente progettando il futuro. E di progetto, che valica i confini dello sport, si parla a Venezia, in casa Reyer, l’unico club di basket con due squadre in Serie A - maschile e femminile - che ha allargato i confini della propria sfera di ingerenza dalla laguna alla terraferma. «Ci rivolgiamo a tutto il territorio metropolitano, fino a Treviso e Padova – afferma Morris Ceron, vice presidente della Reyer –. Abbiamo 23 società collegate e 4.500 atleti che crescono condividendo gli ideali del nostro progetto culturale e sociale basato sulla formazione della persona, prima ancora che dell’atleta. Pensiamo che lo sport debba essere il veicolo di una cultura fondata sulla crescita dell’individuo. È il principio ispiratore fin dalla fondazione della società nel 1872, nata sulle idee del pedagogo Costantino Reyer». Per partecipare al progetto le società di base devono garantire determinati requisiti. «Ci sono riunioni continue con presidenti e tecnici. Sulle maglie c’è una scritta “Reyer project”, vuol dire che ci unisce questa idea di uno sport educativo. Siamo partiti nel 2006 quando il presidente Brugnaro ha rilevato le due società veneziane e quella di Mestre facendone una unica: il settore giovanile maschile aveva zero tesserati. A ogni società mettiamo a disposizione il nostro know-how, la nostra struttura tecnica. E ai giocatori più bravi diamo la possibilità di giocare in squadre più strutturate. A livello giovanile, lo scorso anno abbiamo fatto sette finali nazionali su sette vincendo tre scudetti, quest’anno cinque finali con due titoli».Ma non c’è solo uno scudetto da conquistare sul campo, lo sport è innanzitutto formazione. «Cerchiamo di privilegiare il fattore educativo. Un esempio? Ai ragazzini, durante l’allenamento, ogni tanto facciamo arbitrare la partita. Vogliamo farli immedesimare in quel ruolo, far capire le difficoltà, che si può sbagliare. Così si impara a rispettare la figura dell’arbitro: anche da tifoso sarai più incline ad evitare offese gratuite». Una particolare attenzione viene rivolta all’andamento scolastico. «L’allenatore segna i voti in un quaderno per fare una verifica incrociata: un calo di rendimento a scuola e in campo potrebbe essere il sintomo di qualcosa che non va. Spesso abbiamo individuato situazioni di malessere. La collaborazione costante con la famiglia dà ottimi risultati, è ben diverso che affrontare i problemi da soli». Con le famiglie il dialogo va oltre la semplice gestione dei ragazzi. «Vogliamo favorire la socializzazione riportando le famiglie al palasport, dove si è ricreata la piazza. Le persone arrivano anche tre ore prima. E nel “Reyer Day”, quando le due squadre di A giocano lo stesso giorno, tra una partita e l’altra proponiamo uno spettacolo dei giovani talenti della zona, offriamo loro un palcoscenico per esibirsi». La Reyer cerca di radicarsi nel territorio anche con operazioni di marketing “sociale”, come il progetto Reyer baby: «È un kit di benvenuto al mondo che viene regalato a tutti i neonati negli 11 ospedali del territorio. Ne distribuiamo circa 12mila all’anno. Nel kit c’è una maglietta e una lettera di benvenuto al mondo, in sette lingue, nella quale si augura ai bambini di ogni nazionalità di crescere integrati e nel rispetto delle regole. Lo sport è un grande strumento di integrazione. Noi abbiamo tanti ragazzi figli di immigrati ed è bello vederli giocare insieme ai nostri figli, in quel momento le differenze culturali si appiattiscono. Il gioco si può tramutare in convivenza civile fuori dal campo. Una piccola conferma l’abbiamo d’estate quando, in collaborazione con il Patriarcato di Venezia, partecipiamo con una giornata dedicata al basket a tutti i grest parrocchiali: si presentano decine di mamme e papà, di ogni nazionalità, con i bambini con la maglietta della Reyer addosso. Si sentono parte di questo territorio. Integrati».L’attenzione ai giovani porta a guardare oltre i confini sportivi e geografici. Perché lo sport deve anche aiutare a riflettere. «Ogni anno a Pasqua organizziamo un torneo femminile Under 14: “Un canestro per Iqbal”, per accendere un faro sul lavoro minorile del quale si parla poco. E leggiamo la storia di Iqbal, il bambino pakistano ucciso perché aveva avuto il coraggio di ribellarsi alla mafia dei tappeti per far rispettare i propri diritti. Aiuta a capire l’importanza delle regole nel lavoro». Anche se l’investimento sui giovani ha una forte valenza sociale un club professionistico si aspetta, pure, un ritorno sul piano prettamente sportivo. Ma per parlare di bilanci è ancora presto. «Con la squadra  femminile due anni fa abbiamo fatto una scelta drastica: ci siamo autoretrocessi in B1 e siamo ripartiti solo con le atlete del nostro settore giovanile. E con le nostre ragazze in un anno siamo arrivati in A2 e l’anno successivo in A1. Nel maschile i primi frutti si cominciano a vedere ora con qualcuno che comincia ad affacciarsi in prima squadra. L’obiettivo è avere fra 4-5 anni una base di giocatori italiani “prodotti” del nostro settore giovanile. Ora molti stanno giocando nei campionati inferiori. Per un ragazzo finite le giovanili è importante giocare e tanto. Sarebbe inutile tenerli in panchina per farli entrare due minuti. La crescita deve essere graduale per evitare il rischio di bruciarli».Ma non tutti possono diventare giocatori professionisti. «A noi interessa che imparino a rialzarsi prima degli altri dalle sconfitte, a essere reattivi, a capire l’avversario, in pratica quei concetti che servono nella vita e nel lavoro per avere una marcia in più. Forse anche per questo a monte del progetto c’è una società come l’Umana (un’agenzia per il lavoro, ndr) non solo come sponsorizzazione. È una questione culturale: noi dobbiamo creare un territorio più competitivo e per farlo abbiamo bisogno di partire dall’individuo, dalla sua formazione ed educazione. E cerchiamo di farlo attraverso lo sport».
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