domenica 12 novembre 2023
Prosegue il dibattito avviato da Giovanni Scarafile sul pensiero messo in crisi dal conflitto che spinge verso aut-aut semplificatore
Manifestazione a Parigi

Manifestazione a Parigi - Reuters

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Agli albori della storia dell’umanità c’è un fratricidio: Caino sopprime Abele, perché gli impedisce di essere l’unico. Abele è l’intruso, l’avversario, il nemico, la prova vivente che Caino non ha l’esclusiva della figliolanza: non è l’unico figlio né il figlio unico, esclusivo ed escludente. Genesi 4, 10-11 narra che il sangue del fratello, non è muto ma parla parole che hanno il sapore amaro, il suono del dolore, che ci rende edotti sull’origine iniqua della distorsione dell’umanità: «La voce del sangue di tuo fratello grida dalla terra fino a me!». La terra, costretta ad accogliere il sangue di un omicidio, torce la fertilità in aridità, e diventa deserto: «Quando tu vorrai coltivare il terreno, esso non ti darà più i suoi frutti».

Giovanni Scarafile, nell’intervento dello scorso 6 novembre su queste pagine, mette in guardia dalla trappola del pensiero dicotomico, che partorisce la logica binaria, semplicistica, dell’aut-aut – «amico o nemico», «buono o cattivo», «giusto o sbagliato» – assegnando alla filosofia i compiti del pensiero critico, dell’impegno etico, del risveglio della coscienza alla pratica della saggezza, la quale è altro dal “sapere”, inteso come dominio, come luce che tutto dispiegando e rischiarando, smarrisce il senso stesso del domandare e ricercare. Esercitando la filosofia nella forma della saggezza-sapienza, si coglie la complessità del pensare e agire umani, secondo la logica dell’et-et: logica della circolarità, della relazione, del kierkegaardiano paradosso e di tutto ciò che si presenta come trasformativo, rigenerativo, persino rivoluzionario. Logica di una libertà “difficile” eppure creativa. Per questo l’approccio critico del pensiero è extra-ordinem, sconvolge e ribalta l’ordinario, per cogliere il novum.

La novità perenne della narrazione biblica sta nel “Non uccidere”, un sigillo che Dio imprime sul volto e sulla persona di Caino. Ebbene sì, anche Caino, l’assassino del suo stesso fratello, che per questo è maledetto, ha un volto: «Il Signore gli disse: “Chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte tanto”. Poi il Signore pose un segno su Caino, affinché chiunque lo incontrasse, non lo uccidesse». Per quanto questo segno-sigillo sia enigmatico, “difficile” e forse anche incomprensibile per la logica umana, mai imperativo fu più sapiente, mai comandamento fu più nuovo e generativo. Il filosofo è invitato alla postura vespertina dell’ascolto e dell’interrogazione: postura radicale, perché plasmata dal pathos che rende edotti, come nell’antichità già esclama (grida?) il coro dell’Agamennone di Eschilo, e come nel dramma del Novecento recita la legge della difficile libertà di Lévinas, quel «Tu non ucciderai» scritto nel sangue e nelle viscere dell’Europa ebraico-cristiana, da cui traspare la sublimità dell’amore che fa dire a Marcel: «Tu non morirai!». L’amore che vince la morte significa l’inoggettivabilità della vita contro la pratica della guerra come disumanizzazione dell’altro, il quale viene così privato della sua individualità non anonima ma portatrice di un nome proprio. Di un volto, appunto. La filosofia, si sa, viene dal finito, dall’humus, dalla terra. La qualificherei come il pensare finito l’infinito, come il divieto di oggettivare la vita.

E allora, la domanda filosofica che affiora con “timore e tremore” dalla linfa della terra, e che consegno agli amici e alle amiche del pensiero critico, è oggi questa: anche la guerra ha un volto? E quale sarebbe? Parlare del volto della guerra: non è questo un ossimoro, una vergogna, persino uno scandalo? La guerra è vendetta, devastazione, omicidio su omicidio. La vendetta non è volto, è maschera artefatta dell’umano, ripudiata dall’art. 11 della nostra Costituzione: «convulsione estrema», «conflagrazione», come scrive Scarafile. Il volto della pace, scritto agli albori della storia dell’umanità, sono le “ragioni” dell’altro: il divieto di oggettivare la vita, il dialogo, l’incontro. Se l’altro non è il diverso, il nemico, l’intruso, l’invasore, ma il portatore della comune umanità: non minaccia, ma è risorsa irrinunciabile.

È allora che l’altro diventa il prossimo nella sua dignità e sublimità (il volto) e nella sua miseria (la maschera), come insegna papa Francesco nella lettera apostolica Sublimitas et miseria hominis, dedicata a Pascal nel quarto centenario della nascita. In La pesanteur et la grace (1947), rifiutando la logica dicotomica, Simone Weil ha proposto una conversione dello sguardo nel senso peculiare di un “accettare il vuoto”: «Non desiderare la sparizione di nessuna delle proprie miserie, bensì la grazia che le trasfiguri». E rafforza il suo discorso con un interrogativo che “allarga gli orizzonti della ragione” verso la “sapienza”: «Qualunque cosa avvenga, come potrei trovare troppo grande l’infelicità, se il suo morso e l’abbassamento a cui essa condanna permettono la conoscenza della miseria umana, conoscenza che è la porta di ogni sapienza?».

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