giovedì 21 agosto 2014
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Era un lunedì, il 30 agosto di sessant’anni fa, quando alle prime luci dell’alba si spegneva nel suo amato seminario di Venegono, definito dal giorno della sua inaugurazione nel 1935 da molti fedeli ambrosiani la “Montecassino della Lombardia”, Alfredo Ildefonso Schuster (1880-1954) il monaco benedettino, di origini romane, che fu per 25 anni arcivescovo di Milano: l’uomo che divenne per tutti il “facchino della Chiesa ambrosiana”. A sessant’anni dalla morte dell’arcivescovo Schuster, ardente ammiratore della figura del cardinale Federigo Borromeo di manzoniana memoria e proclamato beato nel 1996 da Giovanni Paolo II, rimane sicuramente attuale. Ed è intatta la grande visione pastorale e caritativa di questo esile e diafano benedettino cassinese chiamato a reggere per un quarto di secolo la prestigiosa diocesi di sant’Ambrogio per volere di Pio XI; sarà il primo vescovo nominato dopo il Concordato del 1929 e il pastore ambrosiano dei record: visiterà 5 volte la diocesi, consacrerà 275 chiese, 21 vescovi e 1.265 preti. Ma chi era Alfredo Ildefonso Schuster prima di essere scelto a soli 49 anni da papa Achille Ratti come successore di san Carlo Borromeo? Nato a Roma il 18 gennaio del 1880, nel 1891 a soli undici anni il piccolo Alfredo varcherà la soglia del monastero romano di San Paolo fuori le mura per poi prendere il nome da religioso (che non avrebbe più abbandonato) di Ildefonso. Saranno questi gli anni della formazione di Schuster allo studio della teologia, filosofia e soprattutto della liturgia, dove fondamentale per il giovane benedettino sarà l’incontro con il monaco considerato da lui stesso come il suo “maestro spirituale” e futuro beato dom Placido Riccardi (18441915); proprio in questi anni farà suo il programma di vita indicato dal suo fondatore Benedetto da Norcia:  Ora, labora et noli contristari  («Prega, lavora e non stare a rattristarti »). Un apprendistato alla vita cenobitica che porterà il giovane figlio di san Benedetto a percorrere i più importanti gradini accademici e di governo del suo ordine e poi anche della Chiesa cattolica: procuratore generale della Congregazione cassinese, priore  claustrale, abate ordinario di San Paolo fuori le Mura e visitatore apostolico in vari seminari italiani (tra cui anche quello della diocesi di Milano). Ma di Schuster è giusto ricordare, come ha spesso e giustamente evidenziato il teologo Inos Biffi, la grande conoscenza della cultura liturgica, a cominciare dagli undici volumi da lui scritti nel monumentale Liber Sacramentorum: un commento al messale romano che rappresentò un punto di riferimento per i liturgisti del suo tempo. L’8 settembre del 1929 farà il suo solenne ingresso nella diocesi ambrosiana. Verrà salutato dagli uomini del regime fascista come un vescovo sulla linea del Concordato e della “conciliazione” con il nuovo stato unitario e «non nemico» del fascismo. Saranno i fatti a smentire questa illusione: nel 1931 non parteciperà all’inaugurazione della stazione centrale come segno di protesta per le continue aggressioni subite dall’Azione Cattolica. Il 13 novembre del 1938 ferma sarà la sua condanna contro le leggi razziali. «È nata all’estero e serpeggia un po’ dovunque – esordirà dal pulpito del Duomo l’arcivescovo Schuster – una specie di eresia, che non attenta alle fondamenta soprannaturali della Chiesa cattolica, ma materializza nel sangue  umano i concetti spirituali di individuo,  di nazione e di patria, rinnega all’umanità ogni altro valore spirituale, e costituisce così un pericolo internazionale non minore di quello stesso del bolscevismo. È il cosiddetto razzismo». Il vero banco di prova del ministero ambrosiano del cardinale saranno gli anni della Seconda guerra mondiale (1940 1945) in cui il monaco e pastore si spenderà per aiutare i tanti sfollati o per salvare e far liberare i tanti antifascisti o intellettuali da sicura condanna rinchiusi, in maggioranza, a San Vittore; il caso più eclatante fu quello di Indro Montanelli che non dimenticherà, mai fino alla fine della sua esistenza nel 2001, di essere uno dei “miracolati” di Schuster. Come proverbiale e coerente con il suo stile di essere «monaco e basta», secondo un’indovinata definizione di David Maria Turoldo, sarà il suo atteggiamento di sdegno e di condanna per la fucilazione dei quindici partigiani in piazzale Loreto il 10 agosto del 1944 e per la macabra ostensione, nello stesso luogo, otto mesi dopo, il 25 aprile 1945, dei cadaveri di Benito Mussolini e Claretta Petacci. Come sicuramente singolari saranno i suoi innumerevoli incontri con il capo del fascismo, dove emergerà, secondo i ricordi dello storico ambrosiano monsignor Angelo Majo, «tutta l’ansia pastorale e semplice audacia » di Schuster verso il Duce: nel 1935 infilerà nel giubbotto di Mussolini un piccolo crocifisso in madreperla; nell’ultimo colloquio, in arcivescovado nel 1945, gli farà dono della Vita di san Benedetto e gli raccomanderà di conservarla perché avrebbe potuto «recargli conforto nei giorni tristi che si delineavano oramai al suo orizzonte». Ma è soprattutto nella parabola finale del suo ministero in terra ambrosiana, nell’immediato dopoguerra, che emerge l’arcivescovo di Milano attento al laicato (basti pensare a figure come Attilio Giordani o Giuseppe Lazzati), ai poveri, ai morti di freddo, ai diseredati: negli anni della ricostruzione lancerà il progetto “Domus Ambrosiana”, grazie al quale furono realizzati tre moderni quartieri costruiti da tredici fabbricati dove trovarono sistemazione 239 nuclei familiari con affitti agevolati. Sua sarà anche l’intuizione della nascita di un centro culturale, prestigioso ancora oggi, come l’Ambrosianeum (1948) o l’impulso che infonderà in tutta la diocesi per la nascita degli oratori. O ancora la sua attenzione, molto originale, verso il ministero silenzioso e privo di riconoscimenti mondani delle consacrate; tanti saranno i doni, a volte occasionali, che Schuster consegnerà a molte claustrali. Come sicuramente insolite saranno le sue affinità spirituali e amicizie che seppe intrecciare con i grandi apostoli della carità del suo tempo: da don Carlo Gnocchi a don Giovanni Calabria fino a don Luigi Orione. La figura di Schuster tornerà prepotentemente sulla scena pubblica durante le elezioni del 18 aprile 1948: il quotidiano “L’Unità”, il 23 aprile di quell’anno lo bollerà come un «galoppino elettorale». Verrà visto dagli uomini del Fronte Popolare, in particolare da Palmiro Togliatti (proverbiale sarà il suo attacco a Schuster con insinuazioni, dimostratesi subito infondate, di «essere un capitalista e azionista della Edison», durante un comizio in piazza Duomo l’11 aprile del 1948), come un nemico alla luce soprattutto della sua pubblica «messa in guardia dalle ideologie marxiste». A sessant’anni dalla sua morte rimangono vivi molti dei suoi tratti profetici, gli insegnamenti, le sferzate al suo clero contro le «prediche insipide» e la sua proverbiale povertà personale testimoniata dalla sorella, la suora vincenziana Caterina Schuster. Ma soprattutto il fatto, come ha scritto il benedettino sublacense e già arcivescovo di Bari Mariano Magrassi, che rimase sempre in fondo fedele a se stesso: «un monaco nel cuore».
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