giovedì 8 dicembre 2011
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​Il signore in smoking che davanti a uno degli specchi del foyer del Teatro alla Scala si sistema il papillon forse non lo sa ancora. Ma di lì a poco, quanto Daniel Barenboim si butterà a capofitto sulla partitura del Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart, avrà modo di specchiarsi un’altra volta. E per lungo tempo. Il regista Robert Carsen ride. E lo fotografa con la sua macchina digitale. Fotografa il pubblico, «spettacolo nello spettacolo» dice. Fotografa il capo dello Stato Napolitano e il premier Monti, a Milano per una sera per l’apertura della nuova stagione della Scala. Quando entrano il pubblico li applaude. «Viva il presidente», grida qualcuno mentre le note – e la composta commozione – dell’inno di Mameli sono ancora nell’aria. E mentre Peter Mattei, che veste i panni del libertino, è già a metà platea Barenboim attacca l’ouverture e con un balzo Don Giovanni è sul palco. Strappa il sipario rosso. «Geniale», sussurra una signora, mentre punta verso il palco il suo binocolo. Ma lo posa subito. Perché si vede riflessa nel grande specchio che era nascosto dal sipario. Le luci in sala si riaccendono. Perché Carsen ci vuole smascherare. Il suo Don Giovanni, è sì un bel gioco di teatro nel teatro alla Pirandello, con Leporello vestito con la tuta dei macchinisti scaligeri che muove le scene e veste Don Giovanni in un camerino sempre in proscenio. Con il sipario rosso che si moltiplica all’infinito, con gli specchi che riflettono la sala dove i cantanti scorrazzano sotto lo sguardo divertito del pubblico che cerca di catturare le scene con il cellulare. Ma è soprattutto uno specchio del nostro presente di un’Italia in crisi. Economica, certo. Lo dicono i Cub che in piazza a suon di slogan e petardi protestano contro la scarsa equità della manovra del governo Monti. Ma soprattutto in crisi di valori. Carsen veste i personaggi mozartiani in abiti moderni, tranne nella festa che chiude il primo atto quando i costumi sono settecenteschi e "rosso Scala" prima che i cantanti se li tolgano per mostrarsi nella loro realtà. Racconta la storia di Don Giovanni che seduce tre donne, uccide il padre di una di queste e alla fine sfida la morte. La racconta in perenne bilico tra finzione e realtà: da una parte il teatro nel teatro con gli specchi, le quinte i personaggi in platea. Dall’altra, la realtà che la tv ci racconta, scene di violenza, a volte di sesso sfrenato, con personaggi da reality, finzione che per molti oggi è realtà. Finzione che sembra stridere con Mozart che è vita palpitante, verità, dolore che si fa carne nella musica. Barenboim viviseziona la partitura, a volte la fa di una lentezza esasperante, altre come una girandola di emozioni (e dal loggione, quando il direttore si ripresenta sul podio a inizio secondo atto, qualcuno, subito zittito, obietta «Troppo lento». E qualche fischio isolato ha raggiunto direttore e regista nei 11 minuti di applausi finali, tributati a tutto il cast), sempre in antitesi con quello che si vede in scena. Stridore apparente perché costringe a interrogarsi. A specchiarsi nelle contraddizioni di entrambi Donna Anna (Anna Netrebko, applauditissima dopo la sue prime arie), nel dolore di Donna Elvira (una intensa Barbara Frittoli) nell’inettitudine di Don Ottavio (il ritrovato Giuseppe Filianoti), nell’ansia di libertà di Don Giovanni e Leporello (Mattei e Bryn Terfel, festeggiatissimi). Facendoci specchiare Barenboim e Carsen vogliono con Mozart smascherare una società dell’apparire. Quella che ha messo al bando la morte vivendo come se questa non esistesse se non nella finzione di tv e cinema. Ecco perché qualcuno fa un balzo sulla poltrona quando nel Palco Reale tra Napolitano e Monti che si guardano spaesati compare la statua del Commendatore che fa precipitare Don Giovanni all’inferno. Qualcuno tira un sospiro di sollievo: il dissoluto è stato punito. Ma Carsen con un colpo di teatro lo fa tornare in scena sornione, a guardare tutti gli altri che mentre fanno al pubblico la morale – «questo è il fin di chi fa mal» cantano – sprofondano nelle viscere della terra. E quando è calato il sipario, stavolta quello vero, ti viene un brivido. Perché vedendo il dissoluto salvo, pensi ai furbi, agli impuniti che quotidianamente le cronache ci raccontano. E pensi all’Italia in crisi. Quella che per una volta ancora Mozart ha saputo raccontare. Smascherandola.
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