La cantante e scrittrice Valeria Rossi col marito, il produttore Pietro Foresti
Sole. Cuore. Amore. Nel 2001 bastarono solo tre parole per fare volare l’allora sconosciuta Valeria Rossi nelle classifiche italiane: Tre parole, da lei scritto, fu il tormentone dell’estate, vendette 10mila copie in tre settimane, vinse il Festivalbar, un triplo Disco d’Oro (200mila copie vendute), un Italian Music Award, rimase in vetta alla classifica per sette settimane, diventando il secondo disco più venduto dell’anno. Una canzone leggera e ottimista facilmente cantabile anche da qualunque “signora” Rossi d’Italia. Ecco le ragioni dell’incredibile successo che travolse la cantante e autrice (all’epoca aveva 32 anni ma la casa discografica la obbligò a dichiararne 27), non più bissato dai successivi album. Fuori dalle scene da allora, anche se ha continuato a lavorare come autrice e produttrice, Valeria Rossi, oggi splendida 49enne, è tornata sotto i riflettori grazie a Ora o mai più, il talent per talenti scomparsi condotto da Amadeus su Rai 1 e conclusosi ieri sera.
Valeria Rossi, chissà quante volte le hanno chiesto in questi anni che fine ha fatto.
«Moltissime. Molti immaginano scenari apocalittici, con quel gusto del torbido che impazza. Ho accettato di partecipare alla trasmissione di Amadeus perché era l’occasione per conoscere la realtà. L’esperienza, anche grazie alla mia coach Orietta Berti, è stata ottima, ai massimi livelli, e ha avuto una evoluzione progressiva che mi ha dato confidenza in me stessa. Si è rafforzata la percezione dell’identità, che non è male».
Identità che sin da bambina ha dovuto ricercare, dato che con la sua famiglia è dovuta fuggire dalla Libia di Gheddafi nel 1970?
«Io sono nata a Tripoli, ma da quando avevo un anno ho vissuto in Italia. Ho visto il trauma della mia famiglia attraverso i loro occhi, una famiglia libica da generazioni, costretta a fuggire perdendo tutto. Mio padre aveva un’azienda di import-export. Da parte di mia madre la nostra famiglia era lì dalla prima metà del- l’Ottocento, dai tempi delle Reggenza di Tripoli del Granducato di Toscana. Vivevamo un’anomalia italiana storicamente controversa. Ho studiato Antropologia e, come dovere morale, ho fatto una tesi sulle espressioni artistiche degli italiani d’Africa a seguito dell’esodo: molti profughi avevano riversato il proprio dolore in canto, scrittura, pittura per stemperare il trauma. L’idea che mi sono fatta è che vivessero spensieratamente i privilegi di una colonia occidentale, purtroppo nata sul sangue, con uno scontro infinito fra truppe italiane e locali».
Come vede, oggi, l’arrivo di tanti profughi e migranti dalla Libia?
«Sono profuga anche io, ed empatizzo molto con loro. Mia madre mi raccontava del sequestro dei nostri beni, dei carri carichi di cadaveri di ebrei che lei aveva visto durante la pulizia etnica messa in atto da Gheddafi. Riguardo ai profughi di oggi sento la profonda iniquità del sistema globale. È un boomerang, il ritorno del danno che abbiamo fatto in passato noi occidentali».
E lei come arriva alla musica?
«Vivevo a Roma, ho iniziato a frequentare scuole di musica, poi ho incanalato la mia passione nel canto. Ho approfondito con una cantante lirica esplorando anche aree meno convenzionali come il canto tibetano. Poi ho frequentato il Cet, la scuola di Mogol: la stavano aprendo, c’erano ancora gli operai. Alle selezioni sono arrivata prima ex aequo con un’altra persona su 500 aspiranti cantautori. Lì ho iniziato a toccare con mano la grande musica italiana grazie alle lezioni di Oscar Prudente, Lucio Dalla, i Pooh. Poi ho avuto la mia gavetta che non era quella del palco, ma scrivevo i brani. Il primo contratto da autrice/compositrice l’ho avuto con Sony. E sono finita sul palco dopo i 30 anni».
Ma non le sembra riduttivo essere ricordata solo per un brano leggero come “Tre parole”?
«A quella canzone devo comunque molto. Perché ho potuto acquistare casa ai miei genitori che erano in affitto, perché ho trasmesso dei sentimenti ed emozioni positive in tante persone. L’etichetta? Il rischio c’è, ma devi fare uno sforzo per uscirne. In realtà avevo scritto un testo più intimista, più crudo e crepuscolare, che nel ritornello faceva: “Sono il traditore, sono il tuo dolore, sono la notte che deve passare. Era l’iperbole della speranza che persiste e porta alla rinascita. Il mio discografico ebbe l’intuizione di rendere più gioiosa la frase su quella melodia. Così la frase diventò “dammi tre parole, sole, cuore, amore”».
Che divenne un tormentone…
«La definizione tormentone non sembra positivissima, io lo definire un “allietone” perché comunicava gioia. Comunque, quando le cose appaiono così lineari è grazie a tutto il lavoro che c’è stato prima. Più una cosa appare semplice, più è frutto di un lavoro complesso».
Lei venne catapultata da perfetta sconosciuta a star dell’anno.
«Era il mio debutto, mi sono trovata subito davanti a migliaia di persone, la capacità di gestire il successo l’ho acquisita nel tempo. Quando feci il Festivalbar nel 2001 addirittura il direttore artistico Andrea Salvetti, il figlio dello scomparso Vittorio, non la inserì nella raccolta che veniva pubblicata in cd, perché tanto non mi conosceva nessuno. Invece il Festivalbar lo vinsi... Ho condiviso il palco con Vasco Rossi e con Eros Ramazzotti e ho visto come devono essere fatte le cose».
Quindi cosa ha fatto negli anni successivi, quando si sono spenti i riflettori?
«Sono rimasta nel settore musicale, scrivo e produco insieme a mio marito Pietro Foresti, che è un produttore internazionale. Ho scritto due libri, Tre parole dopo. Riflessioni intorno al successo e Bimbi in cucina, venti ricette correlate ognuna a una canzone per avvicinare le famiglie a una sensibilità alimentare».
Un libro dedicato a suo figlio?
«Mio figlio Miro ha 9 anni e gli piace ballare. Fare la mamma è il mio primo lavoro, è la cosa che mi occupa di più e che mi fa felice. E avere qualche decade sulle spalle mi fa avere un quadro più ampio della vita».