venerdì 30 ottobre 2020
Retrospettiva a Montevarchi sul pittore fiorentino: la sua figura un po’ trascurata riemerge in 50 opere. L’attenzione a un’umanità povera e vitale, uno stile segnato dal pessimismo leopardiano
Ottone Rosai, Il cieco e il chitarrista (1932), particolare

Ottone Rosai, Il cieco e il chitarrista (1932), particolare - .

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Il Rosai, una trentina di pagine illustrate, fermate con due punti metallici (oggi, nel gergo caro ai vernissages, si direbbe appena una brochure…) con alcuni testi non firmati, di cui si conosce il nome degli autori però: fra questi, Berto Ricci, Dino Garrone, Edoardo Persico. I titoli dei saggi sono lo specchio di un’epoca e di un circolo di ribelli o di “teppisti” (per stare a un genere caro al patriarca) che fermenta nel ventre fiorentino: “Impressione di Rosai”, “Il nostro uomo”, “Supremazia dell’arte italiana”, “Paradosso della tradizione”, e soprattutto “Ai giovani”. Titoli di cui si intuisce il tono polemico, peraltro diffuso tra certi figli della nazione dominata dal fascismo. Alcuni, anche loro fascisti confessi, ma rivoluzionari, ovvero di sinistra. Quelle poche pagine furono un “manifesto” letto da molti altri potenziali ribelli e in qualche caso fu condiviso nella sostanza. Non dimentichiamo che l’appello ai giovani era tipico di un populismo che il fascismo fomentava rivolgendosi ai futuri uomini della nuova Italia mussoliniana con l’esortazione: “largo ai giovani”. Era il 1930 l’anno di edizione del “Rosai”. Il nome dell’intestatario, Ottone, dice molte cose: era caro agli anarchici, come “Cilindo”, sorta di richiamo al mito operaista e al riscatto dell’uomo costretto a lasciare la campagna per un matrimonio di convenienza con la macchina… Andrea Camilleri, il mentore di Montalbano, qualche anno fa dedicò una interessante indagine narrativa a Edoardo Persico, ma scambiò per un refuso quello che invece era intenzionale in una lettera che Berto Ricci scrisse a Persico dove parlava di “Cicago, la capitale del maiale”: l’aver fatto cadere l’acca che figura nel nome della città americana – dove la catena di montaggio fu sperimentata precocemente proprio per trattare la lavorazione delle carni suine –, era lo spregio verbale dovuto a una delle linee di pensiero che segnarono gli anni Trenta: l’antiamericanismo – ostilità forse anche più accesa rispetto a quella dell’altra linea convergente nella polemica: l’anticomunismo –; quindi, in Cicago c’era tutto tranne che un refuso e Giulia Veronesi curando i due memorabili volumi degli scritti di Persico per le Edizioni di Comunità, segnalò l’intenzionalità di Ricci con un punto esclamativo.

Era l’eco di radicalismo antiborghese del “marginale” Rosai, temperamento ruvido che incendiava il cuore dei più giovani raccolti attorno a lui quando decisero di farne pubblica ostensione raccogliendo i loro pamphlet sotto il nome del maestro. Ben presto Ricci decise di fondare una sua rivista, “l’Universale”, per dare spazio a questo cenacolo rivoluzionario. Perché Rosai interessava tanto questi giovani già dalla fine degli anni Venti? – e con loro il “milanese” Persico, che quando si trovava sradicato e squattrinato a Torino – lavorò persino come uomo delle pulizie alla Fiat – dopo aver conosciuto Gobetti, Casorati e Lionello Venturi, spese le sue energie per formare il gruppo dei pittori noti come i Sei di Torino. Li attirava lo spirito da “non conformista” – una categoria molto variegata, che Giuseppe Goisis aveva affrontato tanti anni fa in un saggio dove parlava appunto di Persico e di Giacomo Noventa, e prima di lui dal critico francese Jean-Louis Loubet del Bayle a proposito degli intellettuali d’Oltralpe che erano intransigenti e insofferenti verso l’americanismo, il comunismo, il nazismo, il fascismo, l’intellettualismo, la Chiesa e tutto quanto aveva il sapore dell’istituzionale e della normalizzazione. Rosai era un campione, a suo modo, di questa compagine, perché rifiutava la furbizia, le convenienze e gli opportunismi di tanti fascisti dell’ultimo momento che avevano trovato modo di accomodarsi e sfruttare i benefici che la dittatura offriva loro. Lui no, era pur sempre l’ex teppista che partorì poi un diario-confessione degli anni di gioventù segnati dal vento delle avanguardie e del futurismo.

Ottone Rosai, Paesaggio' (1939), particolare

Ottone Rosai, Paesaggio' (1939), particolare - .

Oggi Rosai è noto a molti affezionati di quel clima, a molti toscani impenitenti, ma sul piano nazionale è un po’ dimenticato. Per questo Montevarchi gli dedica fino alla fine di gennaio una retrospettiva che merita di essere vista per due buone ragioni: l’appassionata difesa del pittore che Giovanni Faccenda fa in catalogo per liberarlo dalle strette dell’ipoteca fascista; e l’esser composta, la rassegna, di opere pressoché tutte provenienti da collezioni private e in qualche caso esposte raramente o per la prima volta. Ma non è poi vero che Rosai sia stato ignorato quando era vivo, i nomi dei critici e degli scrittori che ne hanno difeso l’opera è altisonante: Alessandro Parronchi, Carlo Carrà, Aldo Palazzeschi, Alfonso Gatto, Mario Sironi, Giuseppe Ungaretti, Marco Valsecchi, Romano Bilenchi, Raffaele De Grada… e sono soltanto alcuni. C’è poi da dire che quando nel 1930 venne stampato quel fascicoletto-manifesto che porta il nome di Rosai, a Milano Edoardo Persico tenne a battesimo la Galleria del Milione organizzando proprio una mostra del pittore fiorentino. Il catalogo, austero ed elegante, copertina in carta goffrata nera, a cura dallo stampatore e rinnovatore dell’arte grafica Gustavo Modiano (che collaborò con Persico quando riprogettò l’estetica di “Casabella”), raccoglie ancora testi di Berto Ricci e Dino Garrone, ma anche di Domenico Giuliotti e Aldo Palazzeschi, e altri nomi dell’epoca, dove si va da un titolo barricadero come “Rosai, pittore giustiziere” a “Rosai contro il folclore”. Ed è proprio questo ultimo termine, folclore, che mi pare interessante per fare un discorso su Rosai che è anche al centro della riflessione di Faccenda: Rosai artista europeo. Ora, devo essere sincero e dire che la poesia e lo stile inconfondibile di Rosai ne fanno certamente un artista vero e grande. L’ispirazione – tutt’altro che strapaesana – pesca nei grandi pensatori, e questo è anche il frutto della solitudine e della sofferenza che Rosai si portò dietro fin da giovane, ma soprattutto dopo la tragica morte del padre nel 1922 che gli lasciò l’incombenza non facile di occuparsi dell’attività economica di famiglia, procurandogli anche un inizio di esaurimento nervoso. Ma la sua pittura, forse, oggi è percepita come “locale” e sconta la distrazione della critica verso quegli artisti che sono stati in modo totale genius loci di una cultura e di una storia ben precisa. Rosai era un uomo d’ideali semplici, di giustizia, di bellezza, e anche di un certo attaccamento alla Nazione e un italiano convinto di appartenere a una “stirpe” di individui che sanno che cosa significa la fatica del lavoro, ma che ha ereditato secoli e millenni di civiltà e la portano con un senso elevato della propria dignità, con una certa aristocrazia. È semplice ma complesso, in certi momenti è primitivo fino a sfiorare il naïf, senza mai cadervi come se dipingesse un canto delle bestie, e questo equilibrio precario gli riesce possibile perché ha dentro l’arte fiorentina, il medioevo delle contrade che si ergono solide come roccia e, al tempo stesso, sfumate quando entra in scena l’umanità.

L’uomo è il suo ideale, l’uomo povero, cioè senza sovrastrutture che non siano la sua natura e la sua idea di umanità – come nei dipinti Sotto la pergola (1922), Partita a briscola (1920), Via Toscanella (1922) –; lo si intuisce già bene in alcuni disegni dove il tratto definisce senza fronzoli figure, volumi e spazi: il padre artigiano (1920), L’uomo seduto (1921) e L’uomo assorto (1929) sul cui volto emergono i pensieri disillusi del pittore. E poi la terra e lo spazio, i campi e le case ( I pagliai, 1920), le strade che si allungano ( Case nei pressi di Villamagna, 1932), viali che conducono verso un orizzonte non proprio paradisiaco, anzi crepuscolare come lo stato d’animo del pittore quando sta per ricominciare un’altra guerra mondiale, la seconda, e le prosopopee del fascismo s’inceneriscono in un baleno. Naturalmente, prediligere una pittura povera come quella di Rosai può essere anche una nemesi che il destino gli rivolge: entrare in quelle case borghesi di cui non amava il tenore di ceto dominante; oppure, una pittura che celebra un immaginario ormai lontano da tutti i pensieri di oggi, dove anche i poveri si dibattono talvolta per possedere i beni di consumo meno necessari (un tempo il pane, oggi lo smartphone “sottocosto”, un guinzaglio che tiene anche i meno fortunati legati al giogo dei vincenti). E forse Rosai è contento di non essere sotto i riflettori del grande varietà che attira e delude tanti di noi ogni giorno.

Montevarchi, Palazzo del Podestà

Rosai Capolavori fra le due guerre (1918-1939)

Fino al 31 gennaio

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