mercoledì 4 maggio 2016
Se la Cina suona il ROCK
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«Voglio darti la mia speranza, voglio aiutarti a essere libera, ma tu ridi sempre di me, perché non ho nulla a mio nome. Voglio darti il mio impegno e darti la mia libertà, ma tu ridi sempre di me, perché non ho nulla a mio nome», cantava Cui Jian nel 1986. Erano i tempi pionieristici del rock cinese e lui era lontano dall’essere definito “il padre” di un genere musicale che nella Repubblica popolare si stava impiantando sugli echi di Bob Dylan, Rolling Stones, Talking Heads e si sarebbe arricchito negli anni di molte influenze.  Prima però toccò a Nulla a mio nome, ( Yiwu Suoyou) pezzo ipnotico di ambiguità calibrata diventare l’inno della protesta nonviolenta degli studenti della Primavera 1989. Una fascia rossa sugli occhi, maglia del Partito comunista, giacca militare, voce roca, il cantautore cinese allora 27enne, autodidatta della musica e della chitarra, uscito dai caffè e dai dormitori dove suonava per sostentarsi, confermò sul palco di Tienanmen ai coetanei della “sua” Pechino che la nazione più popolosa al mondo non aveva nulla, che la sua essenza le era negata. «Senza fine continuo a chiederti, quando verrai con me? (…) Ti darò i miei sogni, e ti darò la mia libertà, ma tu ridi solo di me, perché non ho nulla a mio nome». Parole d’amore e di ribellione, volutamente doppiosenso, che andavano diritto al cuore e per la prima volta esprimevano con tale chiarezza il sentire ancora incerto ma condiviso di milioni di giovani. Così Nulla a mio nome scandirono tra aprile e maggio di 27 anni fa i giovani di Tienanmen a una classe dirigente che propagandava rinnovamento mentre chiedeva fedeltà e duro lavoro in cambio di trucioli di libertà piegati all’ideologia. Una classe autoreferenziale, un circolo di poche famiglie erede di un sistema imperiale che il maoismo aveva messo in stand-by ma che era pronta a tornare sulle scene e lo avrebbe fatto spazzando via ogni opposizione. Il risultato fu la strage della notte del 3 giugno e la caccia all’uomo delle settimane e mesi successivi. «Sento che questa terra non è perduta, anche se non posso tollerare che sia prosciugata e spaccata. Sento di voler bere un po’ d’acqua, ma la tua bocca ha chiuso la mia bocca, non posso andarmene e non posso piangere. Anche se il mio corpo è già appassito, ti accompagnerò così per sempre, perché sono quello che conosce meglio il tuo dolore», cantava Cui nel 1988, in un altro dei suoi brani più noti, Pezza rossa. Un “sentire” diffuso nel post-Tienanmen al quale Cui Jian è sopravvissuto musicalmente, producendo lavori che ne hanno confermato insieme valore e capacità di “resistenza”.  Una musica essenziale, la sua, che molto prende da quella tradizionale come ar- rangiamenti e strumenti, ma che è diretta e tagliente; testi che uniscono slogan rivoluzionari, slang urbano, metafore e allegorie, insieme comprensibili ma non univoci. Uno sfondo opportuno ad accompagnare l’ultimo trentennio. Temuto, però, se ancora oggi a Nulla a mio nome è negata l’esecuzione live. La realtà cinese attuale non è più quella della Primavera di Tienanmen. I cinesi godono di un reddito medio venti volte superiore e il benessere è concreto per molti, prossimo per tanti. Crescono però le disuguaglianze, anche la distanza tra cittadini e potere. Inoltre, dopo un generazione segnata dalla “politica del figlio unico”, i giovani delle classe media sono “piccoli imperatori”, ovvero godono di opportunità e anche privilegi un tempo negati. Una situazione che ha creato un divario generazionale, se possibile ancora maggiore che in Occidente. Il disinteresse verso sicurezza e conformismo, prerogative dei padri, alimentano nuove aspirazioni e necessità, anche l’insofferenza verso l’autorità. Favorendo una realtà musicale che ha nello scrittore ed esecutore Yan Jun e nel produttore- musicista-poeta Yang Haisong – promotore di numerosi gruppi e a capo della rock band “di culto” P.K. 14 – protagonisti eclettici. Riferimenti di una generazione che oggi alimenta e vive una cultura urbana che è internazionale per sollecitazioni, ma insieme profondamente cinese. L’immenso capitale musicale e culturale reso disponibile attraverso Internet – nonostante i filtri imposti dal Grande Firewall e dalla censura – fa dei cinesi affamati fruitori di generi e tendenze, ma anche appassionati interpreti e arrangiatori. Partendo dalla capitale, il rock continua a esprimere aspettative e protesta in un gioco a rimpiattino tra business e ricerca. Rabbia e disagio, anche, come i Tang Dynasty, storica band progressive e metal del carismatico chitarrista Liu Yijun. Complessivamente, in pochi anni il rock cinese, assimilate le esperienze punk, elettroniche, new wave, minimaliste e free jazz, ha alimentato una cultura musicale vivace che vive di scantinati, piccoli pub o semplici spazi resi disponibili, tanto più ambiti e provocatori quanto più vicini al centro del potere cinese. A Piazza Tienanmen dove tutto o quasi è cominciato. «Le parole in sé sono imprecise, non possono esprimere con chiarezza questo mondo», ricorda ancora Cui Jian all’avvio del suo brano Gli anni ’90: una tesi e un avvertimento perché oggi come ieri il rock cinese è ambiguità di espressione, passione più che critica o rivolta, ma non vi è alcun dubbio che apre all’alternativa e per questo è temuto. La chiusura il 3 maggio della Mao Livehouse, rock venue tra le più note di Pechino, ha segnato la fine di un’attività balbuziente negli ultimi tempi. Impossibile ormai accogliere le richieste di affitto esorbitanti e gli intralci burocratici...
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