mercoledì 21 dicembre 2016
Come intervenire nei centri storici distrutti dal sisma? Cosa significa “dov’era com’era”? L’identità dei luoghi è innanzitutto una memoria comune: è questa alla base di ogni ripristino
I mattoni numerati del duomo di Venzone (Giorgio Boato)

I mattoni numerati del duomo di Venzone (Giorgio Boato)

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Com’era e dov’era. L’impulso a ricostruire quanto l’evento traumatico ha cancellato, così che tutto torni come prima, è forte e si ripresenta ogni volta che accade una nuova tragedia. Così anche dopo l’evento sismico che ha colpito in particolare Amatrice si sono levate voci a chiedere che tutto torni com’era. Come a voler cancellare l’evento luttuoso, a volerlo togliere dalla scena improvvisamente sconvolta. Ma quali criteri seguire per ripristinare quanto è stato sfigurato? A questo problema l’architettura ha proposto diverse risposte in questa Italia attraversata da disastri ambientali. Il campanile di San Marco in Venezia è uno degli edifici simbolo della capacità di ricostruire identico all’originale: crollato il 14 luglio del 1902, fu riedificato esattamente com’era nel giro di dieci anni. Ovviamente le ricostruzioni cercano di aggiungere, ai profili esterni che si mantengono, strutture interne capaci di proteggere da ulteriori crolli. Al riguardo esemplare fu il caso della cattedrale barocca di Noto la cui copertura crollò nel marzo del 1996, probabilmente a seguito di lesioni sofferte col terremoto di sei anni prima ma certamente per un difetto costruttivo che permaneva sin dalle origini e che non era stato notato in precedenza: i pilastri delle navate erano riempiti con ciottoli di fiume e per questo non erano capaci di reggere un forte peso (la forma tondeggiante dei ciottoli fa sì che questi scorra- no gli uni sugli altri come se fossero palle, cosa che non accade quando i pilastri sono composti da mattoni o conci dalle superfici piane).

La ricostruzione, studiata e condotta dall’architetto Salvatore Tringali, è stata definita “migliorativa” nel senso che ha sanato il difetto intrinseco ai piloni rendendo la cattedrale a una stabilità strutturale che non aveva in precedenza. La scienza delle costruzioni oggi è assai più avanzata e perfezionata di come era secoli o solo decenni addietro: passata l’ubriacatura per il cemento armato facile e spesso malfatto, ristudiate con attenzione le tecniche antiche, oggi v’è la capacità di ricostruire con sapienza, strutture stabili e capaci di sopravvivere a qualsiasi terremoto. Ma rimane il problema più squisitamente culturale: qual è il senso del ricostruire com’era e dov’era? Ricostruire l’identico non comporta a volte di realizzare un falso? E non implica forse il desiderio di cancellare l’evento? Non è meglio mantenerne la memoria così da non incorrere nel rischio della rimozione? L’identità dei luoghi, come necessariamente anche delle persone, si compone di ampie costellazioni di elementi. Le strade, le piazze, le facciate hanno molto a che vedere con la concezione di sé che hanno gli abitanti: un fatto che è stato sottolineato da più parti, ma in particolare da Christian Norberg-Schulz nel suo noto trattato sul Genius loci. «Un luogo è un fenomeno qualitativo, totale, che non si può ridurre ad alcuno dei suoi singoli componenti – sostiene Norberg-Schulz – L’uomo non solo costruisce luoghi, ma costruisce anche se stesso (...) e attraverso le costruzioni dà significato, presenza concreta e raccoglie, visualizza e simboleggia la propria forma di vita, come una totalità».

Tutta la storia del-l’architettura è intessuta di rimandi alla cultura che le opere rappresentano, perché, come riferisce Silvia Mariana De Marco ( Psicologia e Architettura: studio multidisciplinare dell’ambiente), «i luoghi sono considerati come simboli sociali fondamentali per la costruzione dell’identità personale (...) Ogni luogo evoca ricordi personali e collettivi e, per mezzo dei significati che una persona gli attribuisce, contribuisce allo sviluppo del proprio sé». In psicologia è noto che il trauma rimosso genera blocchi emotivi e incide negativamente sulla vita delle persone. Del pari, rimuovere un ricordo collettivo – sempre che fosse possibile – non avrebbe effetti forse negativi sulla società nel suo complesso? Dunque meglio è ricordare facendo propria la memoria, come un patrimonio comune sul quale far crescere l’identità collettiva che, così come il panorama urbano, è sempre in evoluzione, sempre in movimento. Pertanto è importante ricostruire in modo autentico, più che identico: per riprendere il filo del discorso storico che intesse una comunità nei secoli, ove possibile recuperando il volto dei luoghi, ma comunque conservandone l’identità. Esemplare è quanto è avvenuto a Gemona, che fu al centro del sisma che si abbatté sul Friuli nel 1976. Il Duomo, che crollò in gran parte, è stato ricostruito identico, usando lo stesso materiale caduto. E tutto il centro storico nel suo complesso è stato ripristinato, recuperando percorsi stradali, cromie e 'sapore' architettonico delle case che vi prospettano.

Ma dove gli edifici erano totalmente rovinati sono stati sostituiti da costruzioni nuove. E s’è conservata anche la memoria lacerante del sisma: per esempio nella chiesa della Beata Vergine delle Grazie di cui resta solo una porzione di facciata, a memoria della forza distruttiva dell’evento. Mentre diverse altre chiese, soprattutto nella parte novecentesca della città, sono state ricostruite, ma secondo un disegno decisamente contemporaneo. Così s’è mantenuta l’identità di una comunità viva e operante, capace di rigenerarsi, ove possibile con ricostruzioni identiche, ma più spesso con opere nuove e tuttavia coerenti con la memoria. È quanto è stato fatto anche a New York dopo il crollo delle torri gemelle: ora al loro posto due quadrilateri vuoti inghiottono cascate d’acqua come segno di nuova vita, mentre sotto terra ancora si possono osservare lacerti dei muri basamentali e i resti di una delle colonne che reggevano le torri scomparse. Un museo ne perpetua la memoria e i nomi di tutti i caduti sono impressi nelle balaustre dei quadrilateri. Il ricordo è coltivato, come le piante dei giardini che intercalano quei vuoti. Erano due singoli edifici, per grandi che fossero. Un luogo non paragonabile a quello di una città dalle profonde radici storiche. Ma paragonabile è il trauma e il bisogno di ricostruire e di ricordare. Tenendo presente che architetture, strade, borgate, città sono strumento di memoria, ma ne sono solo una parte. L’identità del paesaggio sociale e urbano è sempre dinamica, e la storia non torna mai indietro. Ricostruire vuol sempre dire andare avanti. Anche Amatrice risorgerà e avrà edifici migliori. Ma è bene che conservi anche le ferite, perché da quelle le future generazioni potranno conoscere che lo spazio collettivo della città, più che dei suoi muri, è forte dell’ingegno di chi li edifica.

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