giovedì 6 settembre 2018
Il film, interpretato da Sergio Rubini, racconta di un uomo che non lascia il suo paese colpito dal sisma. Il regista: «Il terremoto è la metafora di un crollo interiore delle comunità»
Sergio Rubini in una scena di “Il bene mio” di Pippo Mezzapesa

Sergio Rubini in una scena di “Il bene mio” di Pippo Mezzapesa

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«La Madonnina la devi lasciare qua». Elia ha gli occhi scuri e dolenti di chi ha sofferto troppo, e lo sguardo diretto e fermo di Sergio Rubini. Ha perso tutto nel terremoto che anni prima gli ha portato via la moglie e ha distrutto il suo paesino, Provvidenza, ma non la speranza che quel centro abbandonato dove è rimasto solo lui possa tornare a vivere. Per questo no, il sindaco dell’anonimo paese ricostruito a valle, non può portare via dalla chiesa diroccata la Madonna tanto amata dalla moglie Maria, trasferendo l’ultimo simbolo di quella che era una comunità vivace, unita e solidale. «Tu hai promesso “ricostruiremo tutto”» rinfaccia Elia al sindaco. «Vogliamo dimenticare» replica il primo cittadino, colpito come tutti negli affetti dalla tragedia. «Vi sbagliate, ricordare bisogna» conclude il caparbio eremita. Ricorda la realtà di tanti, troppi paesi terremotati italiani abbandonati la vicenda dell’eroe solitario protagonista di Il bene mio , film toccante e ricco di spunti di attualità del giovane regista Pippo Mezzapesa, evento speciale fuori concorso alle Giornate degli autori della 75ª Mostra del cinema di Venezia.

Il film, prodotto da Altre Storie con Rai Cinema, uscirà nelle sale il 4 ottobre. «Il terremoto è la metafora di un crollo interiore, la ferita di una comunità che ha perso la capacità di vivere insieme. Il dissolversi della solidarietà in questa piccola comunità, in qualche modo rappresenta anche l’Italia» spiega ad “Avvenire” il giovane regista di Bitonto, noto per i sui lavori impegnati. L’artista, qui al suo secondo lungometraggio, ha vinto il Nastro d’argento speciale per l’impegno sociale nel 2017 per il film breve sul caporalato La giornata , che porta alla luce la vicenda di Paola Clemente, la bracciante di 49 anni morta nelle campagne pugliesi. La sua cinepresa ora vaga fra le pietre corrose e i silenzi eloquenti del paese terremotato, ambientandolo in un vero paese fantasma, Apice in provincia di Benevento, i cui 6.500 abitanti vennero fatti evacuare dopo il terremoto del 1962 per ricostruirne uno nuovo in pianura.

«Mi hanno sempre affascinato questi paesi fantasma, questi borghi che, per effetto di un evento naturale o per effetto di graduale spopolamento, sono stati abbandonati a un destino di lento, inesorabile deperimento – spiega Mezzapesa – . È in quelle strade gonfie di silenzi che ho cercato le ragioni di un uomo per non andare via». E sono quanto mai ricchi i silenzi interiori di Elia (cui Rubini riesce a dare magistralmente profondità umana e un tocco di leggera ironia), nelle notti buie tormentate dagli incubi o nei giorni solitari in cui pazientemente recupera occhiali, giocattoli, soprammobili per salvare i ricordi comuni. Lui lotta caparbio e incompreso dai compaesani per “il bene comune”, per salvare il suo centro, pulendo e curando con amore quello che resta e rifiutandosi di trasferirsi in un lindo bilocale standard da 40 metri a “Nuova Provvidenza”. L’ultimo abitante di Provvidenza (i riferimenti biblici come quello al profeta non sono casuali ci conferma il regista) è diventato una attrazione e mostra ai turisti giapponesi nei viaggi organizzati dall’entusiasta amico Gesualdo (un Dino Abbrescia di irresistibile simpatia), agente specializzato in viaggi a Lourdes, dove stavano i punti di aggregazione, il bar, l’amato cinema, la scuola nel cui crollo è morta la moglie maestra insieme a tanti bambini. L’ombra del lutto non riesce ad abbandonare Elia, fin quando una misteriosa presenza femminile, Noor (l’attrice francese di origini nordafricane Sonya Mellah), una donna in fuga dapprima scambiata per un fantasma, entrerà nella sua vita condividendo dolori e aspirazioni.

«Noor è l’esigenza primaria di sopravvivenza. Il suo nome significa Luce, ed è questa luce di speranza che ci riporta ai valori primari di accoglienza, solidarietà, apertura verso il mondo che poi è apertura verso se stessi » aggiunge Mezzapesa. Per Elia il recupero della memoria non è qualcosa di archeologico, e l’incontro con la donna lo renderà ancora più chiaro. «Per lui il recupero della memoria è seme per creare il futuro – aggiunge il regista –. Paradossale è la sua reazione eremitica, come strambi sono i personaggi che salgono a trovarlo per convincerlo a desistere. Tutti hanno le loro ragioni, tutti sono tasselli di una comunità perduta che cerca come può di esorcizzare il dolore». Mezzapesa riesce a veicolare tutti questi pensieri in una narrazione agrodolce e tragicomica, fra dramma e sorriso, trattando con garbo e tenerezza il tema della vita e della morte. Con una nota marcata di speranza. Riuscirà il nostro eroe, diventato un abusivo, a non farsi trascinare via dalla polizia mentre il sindaco fa murare gli ingressi del Paese? Lo sguardo del regista è fiducioso soprattutto nella forza delle idee, tanto che Elia, considerato un pazzo, riuscirà a superare il trauma del lutto e diventare il leader di un cambiamento morale. «È questa guida che manca all’Italia. Anche noi avremmo bisogno di un Elia», conclude Mezzapesa.

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