mercoledì 15 giugno 2011
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Il religioso Ezio Viola, rosminiano, fu incaricato di prendersi cura di padre Clemente Maria Rebora, uno dei maggiori poeti mistici del ’900. Ne fu segretario e infermiere dal settembre del 1956 fino alla morte avvenuta alle 6.54 del 1° novembre del 1957 a Stresa. «Più che mai elevo le mie grida per te, perché dalla mia infermità, sia quella di Gesù, ch’Egli ti insanguini tutto». Firmato Don Clemente Maria». Si tratta di una delle ultime lettere di Rebora, finora inedita, datata 2 marzo 1956. Ezio Viola ce l’ha voluta donare per i suoi settant’anni di vita religiosa nell’Istituto della Carità (padri, suore e ascritti rosminiani). La salita al Golgota di Rebora durò venticinque lunghi mesi. Il primo attacco di paralisi fu tra il 15 e il 16 dicembre del 1952, ma il terzo, che lo costrinse per sempre a letto, avvenne il 2 ottobre del 1955. Abbiamo incontrato Viola al Collegio Rosmini sopra Stresa, dove, nella vicina chiesa del Santissimo Crocifisso, riposano le spoglie di Rebora e del beato Antonio Rosmini. A lui, Rebora dettò, tra settembre e dicembre del ’56, le ultime poesie della sua vita.Lei sapeva quando fu mandato a Stresa, che padre Clemente Maria fosse un grande poeta? «Lui aveva fatto il voto di patire e morire oscuramente polverizzato nell’amor di Cristo. E i nostri superiori rispettarono questa volontà». Come trascorreva le giornate in quegli ultimi mesi?«La mattina alle sei era già intento a segnare su dei foglietti gli appunti per la corrispondenza oppure fissava dei versi, per lo più d’imprecazione al Signore affinché lo chiamasse prima possibile. Teneva sempre, anche di notte, una matita e un piccolo block notes. Alle sette beveva il caffè e dopo la Comunione rimaneva più di mezz’ora in ringraziamento. Alle nove cominciava a dettarmi le lettere la maggior parte di condivisione nella sofferenza degli altri. Intorno alle undici e trenta pranzava. Lo dovevo imboccare perché le sue mani erano debolissime. "Quale tremenda necessità dover mangiare", diceva spesso. Dopo riposava fino alle prime ore del pomeriggio. Alle diciotto il padre Rettore gli dava la benedizione e riposava, dopo alcune letture spirituali». Quando celebrò l’ultima messa? «Fu nel mese di ottobre 1955, infatti in una lettera di quell’anno scriveva: "Da una quindicina di giorni non sono più in condizione di celebrare; partecipo dunque con tutto il cuore dell’intenzione santa, mentre le restituisco l’offerta"».Soffriva molto? «Era l’inizio del ’57 quando un giorno se ne uscì con espressioni del tipo: "Fino a che punto, o Signore! Perché, o Signore?". Oppure: "Tra me e Dio c’è un muro! Non sento più nulla". Spesso si lamentava dei dolori fisici perché lo distraevano: "Io che vivrei sempre col pensiero nell’Assoluto, causa queste miserie…", alludendo ai disturbi d’intestino». Le capitò di rassicurarlo? «Eravamo verso la fine del ’56, per consolarlo gli dissi: padre, dorma, cosa deve fare? Mi rispose "caro, ho degli impegni interiori, non posso oziare. Perché non sono più mio"». C’è stato un momento che è peggiorato in modo particolare? «L’anno della sua morte, il ’57, è stato tremendo. Diceva: "Ma quand’è che muoio io? O Gesù, prendimi con Te!"». L’agonia di Rebora è la stessa che si coglie nel Salmo 22? «Sì! e rispondo con le belle parole del padre gesuita Ferdinando Castelli, che in un articolo dedicato a Rebora apparso sul periodico della Congregazione dei Servi della Carità, Opera Don Guanella, scrive: "Il Golgota non è più un luogo maledetto, ma un paradiso pieno di dolore, di quel dolore che è esigenza di condivisione. Cristo condivide il dolore dell’uomo, facendolo suo; l’uomo condivide il dolore del Sanguinante Cuore del Crocifisso».Riceveva visite? «Accoglieva tutti in qualsiasi momento con tenerezza e un sorriso. Per lo più erano persone che chiedevano preghiere per gli infermi, sacerdoti che si confessavano, chiedevano consiglio».Visite illustri? «Nel luglio del 1957 venne Giuseppe Prezzolini insieme a una sua alunna suora, Margherita Marchione, talmente affascinata di Rebora, che girò tutta l’Italia per raccogliere testimonianze. Il poeta quel giorno si commosse tantissimo nel vedere Prezzolini, conversarono a lungo e prima che andassero via li benedisse». Quali erano i commenti di chi usciva dalla sua stanza?«Molti piangevano dalla commozione, ma il fatto sorprendente erano le osservazioni del tipo: "Che santo, che occhi pieni di luce! Che meraviglia!"».Cosa avevano gli occhi di Rebora? «Prezzolini lo descrisse così: "Un bellissimo giovane dagli occhi vellutati". Il suo sguardo era ammaliante, profondo, pieno di luce. In un momento di crisi nel tentativo di consolarlo gli dissi, ma padre lei vive in grazia di Dio, si vede dai suoi occhi. Mi rispose: "Sì, sì… gli occhi, ma la mia realtà interiore è ben diversa». Cosa diceva della sua poesia? «Un volta gli fu chiesto di esprimere un giudizio su un testo di poesie. Non si pronunciò perché in vita non aveva mai dato giudizi. Era consapevole però che la sua era ben lontana dalla moderna poesia, era frutto di sofferenza, esperienza intima. "Mi è costata la pelle!", esclamò». Le sue ultime poesie? «Davanti alla finestra della sua stanza c’era un pioppo. Un giorno gli chiesi come mai non gli avesse ispirato qualche poesia? Rispose con tenerezza: "Caro, e pensare che io l’ho sempre creduto un frassino!" e si mise a ridere. Il giorno dopo mi dettò una poesia».Quale? «Mi dettò Il Pioppo: "Vibra nel vento con tutte le sue foglie il pioppo severo: spasima l’anima in tutte le sue doglie nell’ansia del pensiero…". Una poesia che piacque molto anche a don Luigi Giussani, come mi disse durante una visita al Collegio Rosmini».Le altre? «Ero da poco a Stresa, quando, il 12 settembre, mentre era disteso a letto sofferente, mi dettò Gesù il fedele. Era sorprendente come potesse nonostante le sue condizioni di salute pronunciare in serenità quelle parole infiammate di amore per Gesù». L’ultima poesia? «Sciamano le api. Siamo nel dicembre del ’56. È dedicata alla Madonna. Qualche tempo dopo mi disse di essere contento di finire di poetare con un pensiero alla Madonna: "Sciamano le api: ingrossano spesse a un ramo di fico: così con Te Maria"…».  Le parlò mai della fama? «Diceva che l’unica fama che conta è la fama eterna, quella si!».Scherzava qualche volta? «Era un grande umorista. Ogni sera lo dovevo sistemare girandolo su di un fianco. Una volta mi disse: "E gira l’arrosto". E un’altra volta: "Non chiudetemi in un baule". Era come un innocente, sempre col rosario tra le mani e il crocifisso».
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