martedì 28 giugno 2016
Rebora, le vette dello spirito
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«Aver tanto agognato alle cime, / e perso vita per vivere sublime» è il bilancio del settantenne don Clemente ormai malato, in attesa della morte e umile fin in fondo: «grazia m’è data di far da concime». Sembra lontanissimo il Rebora dei Frammenti lirici di quarant’anni prima, al tempo di un’altra attesa, quando scrive: «tutta è mia casa la montagna ». Infatti tra i segni profondi che legano tutta una vita in continua ascesa c’è anche la natura con gli amati monti, fin dalla confessione giovanile: «Vorrei palesasse il mio cuore / nel suo ritmo l’umano destino». Così scrive il non ancora trentenne poeta nei primi testi composti nell’abbaino della casa paterna di viale Venezia 12 a Milano: «Cerco e non trovo», ammette, privilegiando i monti lombardi dove «sponda / al desiderio il cielo azzurro porge», in contrasto con i ritmi frenetici della città cui si affaccia di lì a poco dal nuovo appartamento di via Tadino 3. Qui il «professoruccio filantropo» inizia a vivere con Lydia Natus, il grande amore della sua vita. Con lei le montagne sono svago, fuga, rapporto con l’intima essenza del mondo; non sono soltanto lo sfondo di molte sue lettere e poesie ma il protagonista in rilievo di versi che si accostano all’«alta montagna selvaggia» di Gozzano o quella «addolcita di toni » di Campana oppure «ridotta a deboli fumi» di Ungaretti. Con la «lucciola » pianista, che gli insegna il russo, si arrampica in val Malenco fino al passo del Maloja oppure verso «lo spirito magno del monte Bianco», dove i due si fotografano con l’anello al dito. Dormono a Courmayeur nella baita dell’avvocato di famiglia Gonzales, come attesta la moglie in una lettera inedita in cui definisce Rebora «amico della montagna». Respira nella natura una religiosità aconfessionale: «Si lamina enorme la vetta… / con l’anima ardente nei geli costretta». Inizia la stagione dell’attesa spirituale, della necessità di salire verso qualcosa che non scorge ancora. Ma prima deve conoscere la disumanità delle valli insanguinate della Grande Guerra «tra melma e sangue» in una «frana di morti». Resta una ferita insanabile, con fantasmi che incontra nelle successive ascese, senza più Lydia, quando l’«alta chiostra d’un monte severo» ricorda «l’ultima chiostra » di Malborge nell’Inferno dantesco: allora si trova in altura a seguire «in ansia l’orma dei miei passi», ricorda nel Curriculum, finché il belare di un agnellino riaccolto dalla madre perduta gli segnala la possibilità di ritrovare la via. Ed è ancora angoscia in val Formazza, verso l’alpe Devero, quando «sgomento, un giorno, fra le nevi, a un passo, / tra cupe vette sotto un cielo basso, / scorsi Cristo in immagine di rupe». Un’altra volta verso l’Ortles perde il berretto e lo ritrova al piede di un crocifisso. Avverte che sono segni di una “metanoia” in atto. Nell’estate del ’19 scrive a Daria Malaguzzi che fa «il camoscio (ma per troppo poco tempo!) dal monte Bianco al Rosa, e ora mi elevo al mio quinto piano, cavo di solitudine». È un attraversamento in cresta il cammino letterario ed esistenziale reboriano: una cordata tesa tra l’«intensa giovinezza» e i tardi «canti dell’infermità » e al centro lo snodo di un libretto di pochi versi e molti silenzi un titolo meditatissimo: Canti anonimi del 1922, quando di ritorno dal fronte la ricerca esistenziale significa rifiutare cattedre istituzionali e dedicarsi a lezioni all’interno di un’opera di assistenza caritativa tenuta nascosta proprio per il bisogno di un servizio «anonimo » che delimiti, tra l’«imminenza di attesa» e la «scelta tremenda », la linea d’ombra da attraversare «nel labirinto dei giorni / nel bivio delle stagioni». L’ascesa più impegnativa deve arrivare, dentro di sé: non segue Tagore in India e riceve la prima Comunione a 44 anni, fa un «gran bel stracciare» di tutte le sue carte e nell’estate del 1930 con tre ore di cammino sopra Ornavasso si ritira «solo soletto» (come scrive il 10 luglio alla madre) per una settimana in una baita ossolana dell’amica Piera Oliva, legata all’istituto rosminiano: tutti i giorni arriva a una piccola cappella a 1700 metri sopra Cortevecchio dove il vicario del santuario del Boden alla fine gli dice: «Si faccia prete!» In una lettera del 21 luglio parla d’essere «fraternamente ospitato in questa altitudine pastorale». Torna così per l’ultima volta in via Tadino, dove aveva meditato la sua scelta religiosa trasfigurata anni prima nell’«imagine tesa» della sua più celebre e antologizzata poesia, a chiusura dei Canti anonimi; un mistero diversamente interpretato fino al ritrovamento recente di un documento, pubblicato sull’ultimo numero di Aevum di Vita e Pensiero, che svela l’immagine con una croce: «Verrà come ristoro / Delle mie e sue pene, / Verrà, forse già viene / Il suo bisbiglio». Il primo ottobre scrive alla mamma: «Disdico l’appartamento». Si allontana dalla città e si avvicina ai suoi monti: prima a Stresa per prepararsi al seminario, ma sarà reputato inadatto, e pochi mesi dopo al monte Calvario di Domodossola. Lì trova il silenzio senza poesia, che però vent’anni più tardi riemerge in lui e ancora una volta gli «porta bontà verso le cime».
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