mercoledì 14 maggio 2014
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Sono giorni difficili per la Rai. Il decreto legge 66 del 24 aprile 2014, cioè il prelievo di 150 milioni di euro sugli introiti del canone dovuti all’azienda dalla Rai, viene da più parti considerato come un duro attacco al servizio pubblico e alla sua indipendenza economica e si stanno moltiplicando le iniziative (stato di agitazione, assemblea permanente, possibili scioperi) dei lavoratori, intenzionati a dare battaglia e, soprattutto, a convincere i vertici di viale Mazzini a prendere provvedimenti contro il decreto. È in questa atmosfera che ieri mattina, nell’ambito della Settimana della scienze della comunicazione promossa dall’Ufficio Pastorale Universitaria del Vicariato di Roma (di cui era presente il direttore, monsignor Lorenzo Leuzzi), si è svolto il convegno La convenzione Rai 2016 un nuovo patto con gli italiani, organizzato dall’Università Telematica Internazionale Uninettuno e da Rai Senior. Ci si è chiesti, insomma, quale potrebbe (o dovrebbe) essere il servizio pubblico radiotelevisivo del futuro, in vista del rinnovo, previsto per il 2016, della Convenzione con lo Stato che ne fissa diritti, doveri e modalità di gestione. «Sono consapevole che questa iniziativa si tiene in un momento delicato per la Rai» ha detto il presidente Anna Maria Tarantola, aprendo i lavori. «Il 2016, però, sembra lontano ma non lo è e questo incontro è un’occasione per riflettere sui mutamenti di contesto e per tentare un’analisi seria sul ruolo del servizio pubblico, indispensabile per il suo futuro». Che, per il presidente, deve vedere la Rai impegnata su tre fronti: «Informare, educare e intrattenere tutti». Per il presidente c’è ancora bisogno del servizio pubblico, soprattutto in questo periodo, perché «l’elevata disponibilità di informazione non significa automaticamente informazione buona e corretta; perché l’industria dei media tende alla concentrazione; e perché l’offerta di prodotti di rilevanza sociale non verrebbe fatta da operatori privati, naturalmente orientati al profitto».Parole, senza dubbio, condivisibili quelle di Anna Maria Tarantola che, tuttavia, pongono nuovi interrogativi. Uno, su tutti. E, a porlo, è monsignor Dario Edoardo Viganò, direttore del Centro Televisivo Vaticano: «Cos’è oggi il servizio pubblico? Non certo quello che riposa in un immaginario che è, ormai, sopito» di cui però, «il 13 maggio 1981, giorno dell’attentato a papa Giovanni Paolo II, tutti capirono l’importanza». Dunque: quale può e deve essere il nuovo patto con gli italiani di cui parla il titolo del convegno? A tentare di rispondere stamattina sono stati in molti, dal presidente di Sezione del Consiglio di Stato Antonio Catricalà  (che ha ribadito la necessità di distinguere «tra chi fa servizio pubblico e chi fa solo televisione») al presidente dell’Eurispes Gian Maria Fara («La Rai deve tornare a riflettere eticamente si ciò che è bello o brutto, buono o cattivo»), dal presidente di Confindustria Radio-Televisioni Rodolfo De Laurentiis («La gente deve tornare ad identificarsi nel servizio pubblico») al critico televisivo Marida Caterini che ha elencato i cinque punti che dovrebbero caratterizzare la tv che verrà: «Al primo posto, senza dubbio, una maggiore attenzione ai minori e, in generale, ai giovani. Poi una maggiore qualità nei talk-show e nei programmi di informazione, maggiore divulgazione scientifica e culturale, una fiction meno legata alle soap e più all’attualità e ai temi reali e un’attenzione ai contenuti web». Insomma, appare chiaro che, pur nella diversità dei punti di vista, se la Rai vuole davvero rinnovare il patto con gli italiani, questi possono e devono aspettarsi che il servizio pubblico non sia più quello degli anni del monopolio televisivo ma sappia rinnovarsi; che non insegua più la televisione commerciale sul terreno della (bassa) qualità pena la perdita della credibilità; e che utilizzi le nuove tecnologie per accrescere la sua qualità e rivolgersi ad un pubblico che sia il più ampio possibile.
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