martedì 8 settembre 2020
Il vocabolario delle persone si riduce a sempre meno parole e di molte non si conosce il significato. I saggi di 3 linguisti evidenziano una situazione che anche a livello universitario è allarmante
«Il fedifrago? Un cannibale!». Quando l’italiano è laconico e sbilenco
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Ci sono parole che rischiano di scomparire: come esiziale che, a dire il vero, già a metà dell’Ottocento i dizionari indicavano fra le possibili vittime d’oblio e oggi è una rarità sentirlo come sinonimo di “rovinoso”. Ci sono parole di cui non si conosce ormai più il significato: è il caso di blaterare che per gli studenti universitari non vuol dire “chiacchierare di continuo e a vuoto” ma “consultare” o addirittura “sussurrare”. Ci sono parole da recuperare nella loro dignità: ad esempio, patria che, dopo essere stata vilipesa dalla bulimia fascista e guerrafondaia, è tornata al suo originale splendore anche per merito degli ultimi presidenti della Repubblica. Ci sono parole che stanno ampliando la loro portata in questi anni: grazie persino a papa Francesco. Pensiamo a ecologia che, anche su impulso dell’enciclica bergogliana Laudato si’, non ha più soltanto un rimando verde, ossia all’ambiente e alla natura, ma diventa “integrale” e riguarda «tutto ciò che è volto a garantire l’armonia, la giustizia, il bene comune del mondo e di tutte le creature che lo popolano».


In fondo ha ancora ragione don Lorenzo Milani, il parroco di Barbiana profeta dell’educazione e del riscatto sociale, quando sosteneva – secondo una frase che la vulgata ha sempre attribuito a lui – che «un operaio conosce cento parole, il padrone mille: per questo lui è il padrone». Non è detto che oggi un padrone (magari un manager o un politico) sappia davvero il decuplo dei vocaboli di un suo concittadino. Certo, l’Italia fa i conti con l’allarme analfabetismo che comprime a un drappello sempre più limitato il numero dei termini amichevoli e comprensibili rispetto ai 47 mila che, secondo la Treccani, formano il «lessico comune» conosciuto e adoperato da chi ha un’istruzione di fascia alta. Eppure «le parole valgono», come ben esprime il titolo del libro di Valeria Della Valle e Giuseppe Patota pubblicato proprio dall’Istituto della Enciclopedia italiana e in uscita il 10 settembre ( Treccani; pagine 184; euro 15). E non possiamo vivere «senza parole», ci rammenta il titolo del volume del linguista Massimo Arcangeli (Il Saggiatore; pagine 288; euro 19). Il primo testo prende spunto dalla campagna lanciata nel 2015 dalla Treccani per raccontare «quale parola ha cambiato la tua vita» e vuole essere uno sprone a vincere la volgarità e la sciatteria; il secondo è la piccola summa di un lessico ormai poco familiare e quindi di vocaboli da redimere: cinquanta quelli segnalati.


Se «Dante è la nostra lingua», ricordano Della Valle e Patota, dobbiamo a Leonardo da Vinci i neologismi ritratto, chiaroscuro e prospettiva aerea. Invenzioni lessicali figlie di un genio eclettico che restano di uso quotidiano. Non accade lo stesso per cruscata intesa come «chiacchierata di poco senso, di poco valore», quasi fosse piena di crusca invece che di farina. Chi la impiega oggi? Pochissimi, forse nessuno. E dire che la parola crusca «vale moltissimo per la storia della lingua italiana», avverte Patota richiamando la massima istituzione linguistica della Penisola, l’Accademia della Crusca a Firenze, di cui il docente dell’Università di Siena-Arezzo è accademico e a cui si devono i celebri Vocabolari, il primo dei quali datato 1612.


Ancora più di nicchia è robustoso che ha un padre santo: Francesco d’Assisi. Il Poverello la crea per il Cantico di Frate Sole, unico testo d’autore dove appare, e così la fa entrare nei dizionari anche odierni. Invece era cara a Girolamo Savonarola la parola reprobo. «Sono alcuni che non guardano Dio né Dio loro: questi sono li reprobi e scellerati uomini che hanno voltato in tutto le spalle a Dio», ammoniva nel Quattrocento il predicatore domenicano. Nel terzo millennio, invece, 174 su 176 matricole all’università – a cui Arcangeli ha sottoposto una lista di vocaboli «un po’ impolverati», come li definisce – non riescono a indicare un sinonimo di reprobo: uno scrive “emarginato” («I reprobi sono gli emarginati della società»); per un altro reprobo è un “rimprovero”, non – stando al corretto significato – uno “scellerato”, un “malvagio” degno di castigo.


Si sorride (per non piangere) scorrendo il catalogo degli strafalcioni che il docente di linguistica italiana all’Università di Cagliari presenta. Per i ventenni, un coacervo non è un’“accozzaglia”, magari di idee confuse, ma un “raccolto”; un fedifrago non è vocabolo amato da Machiavelli che indica “chi tradisce la parola data” (com- preso il marito o la moglie) ma un “cannibale” tanto che qualcuno scrive: «Il fedifrago mangiò il morto». Se sagace evoca chi è “perspicace”, pronto a intuire quanto sta accadendo, i giovani contemporanei ritengono che l’aggettivo usato da Boccaccio o Parini sia equivalente a “narcisista” o a “pieno di sé”. Per non parlare di laconico che deve la sua origine alla Laconia, antica regione della Grecia di cui era capoluogo Sparta, e che rimanda a un approccio “breve, conciso”: invece c’è chi adesso lo considera, a seconda dei casi, sinonimo di “assente” o “incisivo”, “inquieto” o “incompleto”, “triste” o “malinconico”. Allora si può affermare che «questa canzone è laconica», appunto malinconica (sic!).


«I più bistrattati sono proprio gli aggettivi», annota Arcangeli. Ma sorte simile tocca ai verbi. Redarguire è più forte di “richiamare” o “rimproverare” ma anche di “sgridare”: perla ormai ai margini, può essere accostata a “biasimare” o “ammonire”. Il linguista la include fra i termini «da soccorrere». Come anche zuzzurellone che ha avuto l’onore di essere l’ultima parola di numerosi dizionari prima di essere scalzata nel Vocabolario Treccani durante gli anni ‘90 da zwingliano (dal nome del teologo protestante svizzero Zwingli), zygion (ciascuno dei due punti laterali del cranio in cui gli zigomi sporgono di più) e zz(z), forma grafica che imita il ronzio della zanzara. Ecco, zuzzurellone è un toscanismo sempre più sporadico che sta per “bambinone”, “buontempone”, “burlone”. Altrettanto saltuario è l’uso dell’aggettivo sbilenco, forse d’origine longobarda: se riferito a una sedia, richiama il fatto che sia “storta”; se a un ragionamento, designa che è “privo di logica”. Il termine, però, ha affascinato Elio e le storie tese ed è finito nel titolo del docufilm (e del libro) sulla partecipazione del gruppo a Sanremo: Ritmo sbilenco. «Vanno riscoperte le mille sfumature del nostro variopinto e incredibile vocabolario», suggerisce Arcangeli. Quasi che l’italiano abbia bisogno di un ospedale da campo, si direbbe con un’espressione rilanciata da papa Francesco, e di interventi (di chirurgia linguistica) per curarlo: dalla trasandatezza e anche dall’ignoranza.

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