mercoledì 20 aprile 2011
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In una società che troppo spesso teme di assumersi le proprie responsabilità, l’ultimo film di Nanni Moretti (Habemus Papam) sembra confermare che è meglio nascondersi dietro l’alibi dei propri dubbi e delle proprie incertezze, piuttosto che assumersi la responsabilità delle proprie scelte. Ognuno può rivedersi nelle tante figure intrise di umanità che vengono presentate nel film: dall’uomo-papa, ai cardinali, alla gente, alla Chiesa. Sembrano le tante facce di una umanità impotente, arenata nelle proprie fragilità psichiche ed esistenziali. Se la condizione umana è solo frutto del caso, come spiega Moretti ai cardinali arringati dalla sua psicologia, la vita non ha senso, è una vita che finisce con se stessa. E intanto l’uomo, così come fa il protagonista del film, vaga smarrito e sognatore per le strade di una società distratta, mentre dinanzi a lui si srotola la storia stagnante di una umanità ripiegata sui propri mali e sulle proprie paure, che si crogiola nei rigagnoli di tante speranze illusorie. Egli resta drammaticamente spettatore della sua stessa vita, incapace di trovare il coraggio per coinvolgersi lì dove c’è un compito da realizzare.Il film sembra attestare che dinanzi alle provocazioni dell’esistenza, l’unica risposta possibile è quella di restare schiacciati dagli eventi della vita, in balia delle proprie pulsioni o dei propri istinti. Il determinismo scettico e un po’ cinico di questa visione morettiana del disagio dell’uomo, privato di ogni capacità decisionale dinanzi ai compiti esistenziali che la vita gli pone, e succube del proprio malessere e delle proprie nevrosi, ripropone una visione riduttiva della persona, immersa in una sorta di strada senza uscita e senza speranza. Una tale concezione non lascia spazio alle componenti più profonde dello spirito umano, quelle che l’aiutano ad aprirsi e a trascendere la propria finitudine, per cogliere le enormi potenzialità che gli sono donate e per riscoprire il senso e il fine (teleologico) della propria esistenza. Eppure, l’individuo non è solo un serbatoio di angosce e di dubbi che lo portano a ritirarsi dalla scena delle proprie responsabilità.Egli è invece interpellato a compromettersi nelle storie di questa umanità crocifissa nei meandri delle tante sofferenze, per far emergere dal profondo del suo essere il desiderio di assoluto, il bisogno di Dio. È una umanità chiamata a puntare su qualcosa o su Qualcuno diverso da sé, per realizzare un significato che dia senso alla propria esistenza. È un significato unico perché si riferisce all’unicità della vita e attende che la persona lo individui in maniera specifica, anche nella peggiore delle situazioni, anche quando umanamente parlando sembra impossibile.Dinanzi alle responsabilità di ogni singola esistenza, c’è un modo diverso di guardare alle cose: ognuno è invitato a porsi non tanto come colui che interroga la vita per accaparrarsi ciò che vuole, ma piuttosto come colui che risponde, coinvolgendosi nelle situazioni che è invitato ad affrontare con dei gesti di vita e non di morte, con la voglia di impegnarsi e non di defilarsi, col desiderio di costruire e non di disperarsi. Certo, si tratta di assumere una psicologia diversa, ma anche un modo diverso di affrontare le sofferenze, le malattie, i dubbi, le incertezze, la vita e la morte. Piuttosto che di una psicologia del profondo oggi l’umanità ha sete di una 'psicologia delle altezze', che aiuti a riscoprire il senso e il valore del proprio essere, anche quando è più difficile. Puntare con forza a cose 'maggiori', vuol dire trascendere se stessi, andando al di là dell’impotenza dei dubbi e delle angosce, che sembrano anestetizzare le aspirazioni più autentiche dell’animo umano.Vuol dire impegnarsi a far crescere il desiderio di una vita nuova, aperta all’alterità di Dio e capace di spezzare le catene dell’apatia e della superficialità passivizzante, per aspirare a nuove opportunità, per reintegrare il proprio processo di crescita con gli obiettivi di senso della propria esistenza, in modo più sano e più autentico.
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