mercoledì 9 dicembre 2020
L’uso compulsivo dello smartphone davanti a un evento ci trasforma da attori a spettatori della nostra stessa esistenza, arrivando a modificare il tempo: da tempo della persona a tempo dell'immagine
Se il presente è assente: dalla vita vissuta alla replica digitale

Veeterzy / Unsplash

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Il mainstream contemporaneo promuove l’hic et nunc a riferimento fondamentale per le nostre esistenze e il consuntivo quotidiano della loro presunta qualità. Sdoganato in modo del tutto improprio da un motto tra i più sintetici e travisati della storia: il 'carpe diem', che sembra rivelare chissà quali vette di illuminazione filosofica e aprire a rivoluzioni inimmaginabili e, appunto, del tutto immaginarie. Il momento presente, se perde il contesto di un passato cui attingere in maniera viva e di un futuro su cui si proietta il suo proseguo, perde ogni significato. Sbiadisce verso una sterilità impietosa. Il presente, così “presente”, compresso a zero tra due entità, passato e futuro, che lo costringono all’inesistenza, non basta a se stesso. Forse non è dato mai un presente in senso stretto. La costante produzione delle celebrazioni visive di ogni momento testimonia la nostra concentrazione totale e compulsiva sulla dimensione istantanea. Il problema nasce dal fatto che istantaneo non più è il momento “fisico” reale ma la sua traslazione nell’evento video-foto-immagine di Instagram o Facebook. Lo stesso concetto di istantaneo, cogente, o come lo si vuole chiamare, non è più nemmeno riferito al tempo della persona, ma al tempo dell’immagine e della sua produzione meccanica. Presente, oggi, si traduce con presente nel supporto. Non è il nostro corpo, ma una manciata di bit o, nei casi più nostalgici, una distesa di pixel interpretati da stampanti laser o inkjet.

Non entro nel merito dello “spessore” dei momenti rappresentati, che potrebbe essere ampiamente opinabile. Il problema va molto più alla radice. Il nostro hic et nunc non viene più considerato per ciò che è. Non ci vede più come attori ma come spettatori. Questo secondo abito diventa nel tempo l’unico, chiaramente alienato. Noi non cogliamo più l’attimo. Cogliamo la sua riproduzione, senza la quale l’attimo non ha più significato. Il presente, di per sé già così penalizzato, finisce per tradursi in postproduzione. Ibrido taroccato tra un passato che non abbiamo sperimentato se non come il meccanismo di riproduzione della sua immagine, e un futuro che è proiezione di quella stessa realtà fittizia. Si demanda l’esistere al processo grafico cui si affida la necessità incomprensibile quanto nevrotica dell’ipotetico congelamento perenne. Ci si condanna così al presente... traslato.

Le conseguenze sono tante. La perdita del senso critico è a mio parere tra le più importanti. Il senso critico è strettamente legato alla identificazione. È nemico di ogni meccanismo di alienazione meccanica. È profondamente legato alla capacità di progetto, alla capacità di immaginare il futuro nel momento in cui si attraversa un presente la cui proprietà fondamentale è divenire istantaneamente passato. Tutti questi processi, oggi, sono vicariati dalla loro riproduzione, vero fulcro della nostra attenzione.

È semplice. Quando schiere di persone, trovandosi di fronte a un monumento o un evento, per prima cosa puntano smartphone, tablet e via dicendo, si assiste in diretta allo spostamento dal senso di ciò che si vive, dell’esperienza, alla sua replica digitale. Che siano le cascate del Niagara, il Colosseo o una birra con gli amici tutto viene assimilato a un unico gesto. Quello dalla riproduzione compulsiva che diviene progressivamente l’unico nostro referente di relazione. L’autoreferenzialità in questo caso non favorisce nemmeno una qualche introspezione. Diventa il veicolo della alienazione cronica da sé e dal presente che viviamo. Ne consegue una atrofia progressiva delle nostre capacità relazionali, non solo con gli altri, con i luoghi o con gli eventi, ma con noi stessi. La nostra identità si sposta inevitabilmente in qualche circuito chip più o meno sofisticato che imita la celebrazione di qualcosa che non abbiamo realmente vissuto.

Il presente fissato in quelle riproduzioni non è un presente, non lo è mai stato. La naturale elaborazione del processo dinamico che attraversiamo e da cui siamo attraversati durante ogni attimo dell’esistenza è fatta per originare una costante tensione progettuale che prende le mosse dall’attuale. Chiave fondamentale di ogni facoltà generativa. Le pratiche social di riproduzione del presente agiscono al contrario. Coltivano una concentrazione statica, temporalmente estesa a tutto il processo di “elaborazione” digitale dell’istante. Ma quell’istante è perso da tempo. Gradualmente si crea uno scollamento incolmabile tra la dinamica “reale” e quella “grafica”. Tutto questo processo di autocondanna al presente fittizio trasforma gradualmente il tessuto sociale in una massa inerziale che coltiva niente altro se non questo fermento onanistico grafico, unico referente di esistenza.

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