giovedì 17 novembre 2016
Al Kunstmuseum la rassegna dedicata al pittore americano che indaga per la prima volta la permanenza delle forme nella sua opera anche durante il periodo astratto
Pollock figurativo risale alle origini del cosmo
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In un certo senso, il percorso compiuto da Jackson Pollock è analogo a quello di Boccioni. Partito dal figurativo ottocentesco e dalla disgregazione della forma nel colore in virtù del solvente luminoso, approdato all’energetismo plastico futurista, alla fine della sua breve esistenza ritorna alla figurazione (stessa cosa accadde a Balla). Vita breve anche quella di Pollock, quarantaquattro anni (era nato nel 1912), con un percorso a suo modo analogo a quello di Boccioni: figurazione/espressionismo astratto/figurazione (solo accennata peraltro fra le trame della matassa dei segni che si stanno diradando, ritirando, per far riemergere forme arcaiche ma riconducibili a una figurazione che in Pollock non fu mai pura, perché l’arcaismo era parte della sua inclinazione rituale e terragna).

Il tema è suggestivo ed era rimasto poco indagato finora. A metterci una pezza, viene ora la mostra “The figurative Pollock”allestita fino al 22 gennaio dal Kunstmuseum di Basilea (il Museo dove è conservato tra l’altro il Cristo morto di Hans Holbein). Circa cento opere sdipanate lungo quasi un trentennio di vita: si parte dalle primissime prove quando Pollock non ha ancora vent’anni (una testina in pietra del 1930-33, che sembra riprendere l’immagine delle teste mummificate degli antenati tipiche di certe culture tribali), o appena più maturo, fra i venti e i venticinque anni, come l’interessantissimo Wagon Crossing Tracks: The Hat, gouache del 1934-38 che tiene insieme una quantità di riferimenti: dal ruralismo americano (coi richiami a Thomas H. Benton) alla destrutturazione surrealista delle forme (con agganci nell’opera di El Greco), al primitivismo naïf; soluzioni che non fanno ancora ben capire dove andrà a parare Pollock, che cosa vuole veramente.

Poi, solo qualche anno dopo, ecco alcuni disegni , perlopiù senza titolo, come studi non tanto per un’opera, ma alla ricerca di una struttura portante che dalla figurazione sommaria sappia liberare le energie vitali deposte all’origine del mondo. Di questo si tratta, di qualcosa che oggi l’uomo cerca coi suoi telescopi spaziali: com’era il mondo prima che la terra, il nostro sistema solare, la nostra galassia trovassero una temporanea stabilità (formula molto imprecisa, poiché in ciò che ci appare stabile a questo mondo, non c’è davvero nulla di stabile). Come si è arrivati a ciò che siamo partendo da una nebulosa di gas denso e ad altissima temperatura? Pollock prende i temi figurativi di forme naturali, umane o inorganiche; li immagina dentro cerchi o quadrati nei quali sembra svolgersi una lotta e una specie di ricompattamento cosmico (un disegno ricavato dalla forma circolare s’intitola Figure in a Landscape).

Di grande interesse, per capire come opera l’artista in questa ricerca del movimento che ingloba gli elementi stabili e definiti, è Composition with Figures and Banners (a suo modo un tema anche futurista), dove alle bandiere è affidato il compito di rendere sulla carta il moto di reintegrazione verso il magma originario. Mentre cerca la strada per questa risalita, per questo rewind del nastro su cui è scritta la storia in miliardi di anni del nostro mondo, Pollock elabora verso la metà degli anni Trenta segmentazioni e fibrillazioni di segni e di forme che si dipanano attorno a un fuoco centrale: la prospettiva è conica ma le delimitazioni dello spazio nel quale si muovono figure e forme è, per così dire, frattale, cioè non segue parametri classici ed euclidei ovvero finisce per plasmare le pareti irregolari e scheggiate di una caverna (che mi ricordano certi vortici prospettici di Kupka). Su questa strada Pollock incontra il surrealismo. Lo incontra mediando anche da artisti come Moore, Giacometti, De Kooning e Arshile Gorky (uno dei più interessanti pittori dell’espressionismo astratto americano), ma soprattutto Picasso, a partire da un sentimento estetico che si rappresenta come poetica del conflitto. In qualche disegno Pollock evoca palesemente Guernica, per esempio il cavallo infuriato che Picasso ha a sua volta ripreso da Piero della Francesca, ma la memoria sembra riandare anche ai disegni di crocifissioni che l’artista spagnolo eseguì proprio negli anni Trenta, mostrando un corpo umano derelitto le cui membra sono ridotte a una forma ossea.

In altri fogli il modello di Pollock è ben più antico, è rupestre, come in certe rappresentazioni dei nativi americani, ma anche quelli delle caverne europee che ci ricordano il discorso sulla valenza sacra e cosmica di queste antichissime pitture. La domanda può essere posta così: fino a che punto quei graffiti rupestri vennero eseguiti in omaggio a un sentimento della bellezza? Se lo pensiamo secondo i nostri parametri estetizzanti, bellezza è qualcosa che attiva una reazione di stupore, di meraviglia, di elevazione; ma per l’uomo delle origini la bellezza anziché estetica doveva essere esistenziale, legata a un’azione, a un gesto, a un rito. E Pollock cerca proprio questo in quelle forme che deposita sulla tela come se fossero graffiate sulla roccia, come se volesse testimoniare il suo legame con l’intera storia evolutiva, quella che inizia dai primissimi uomini capaci di articolare un segno su una superficie per esprimere una esperienza “magica”, quel soprannaturale che si scopre agganciando nel rito il flusso vitale che lega di contrappunto i cieli alla terra, il fuoco all’acqua. Ciò che Pollock produce sono appunto “Totem” (titolo di uno dei dipinti più belli esposti a Basilea). E certi titoli parlano chiaro, riguardo a questa ispirazione sacra della pittura di Pollock: The Moon Woman, Guardians of the Secret, Bird, Water Figure.

La mostra di Basilea ha l’indubbio merito di farci comprendere due cose essenziali sull’opera di Pollock: la sua pittura è una cosmica sdefinizione delle forme, un descensus ad inferos per ritrovare nel caos il bandolo della matassa che permetterà di avvolgere il gomitolo della storia figurativa dell’uomo attorno a un nucleo solido che oggi facciamo fatica a vedere; inoltre: la sua pittura conserva sempre un elemento figurativo, anche quando celebra l’apoteosi energetista del cosmo nel dripping, e questa trasversalità del nucleo permanente non solo non è dissolvibile, ma riappare alla fine della storia artistica di Pollock attraverso quelle matasse di segni neri intrecciati e avvolgenti come nel barocco, che aprendo varchi nel tessuto pittorico riportano in primo piano il discorso sul vuoto (il bianco della superficie pittorica) come questione di uno spazio residuo liberato dall’esplosione cosmica iniziale. Questo apre il discorso sull’alchimia, sui simboli (junghiani e non), sulla valenza energetica della materia e della luce nella pittura di Pollock, ambiti su cui ancora si dovrà indagare per comprendere appieno la sua opera e quei riferimenti subliminali imprigionati nei suoi vortici filamentosi.

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