domenica 24 maggio 2009
Al Festival biblico di Vicenza la Premiata Forneria Marconi canterà i brani del famoso lp del cantautore genovese, che per quel testo si ispirò ai Vangeli apocrifi. Dice il chitarrista Franco Mussida: «Oggi come allora rimane un disco non etichettabile»
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Era il dicembre del 1970, quando entrò nelle classifiche dei dischi un album anomalo: che si apriva con Laudate Dominum, passava per un’Ave Maria, si chiudeva con Laudate hominem. Era La Buona Novella di Fabrizio De André, la rivoluzione dell’amore cristiano rivisitata dalle pagine dei Vangeli apocrifi. Per capire Dio e la vita partendo dall’umanità di Cristo; e perché De André, in fondo, «pendeva dalla parte di chi la rivoluzione dell’amore la vuole, stava con chi ci crede». A parlare è Franco Mussida, chitarrista della Premiata Forneria Marconi, immerso tra liriche e spartiti di quel disco di quasi quarant’anni orsono. In cui Mussida stesso suonò assieme al collega Franz Di Cioccio, allora entrambi nel gruppo 'I Quelli' poi entrambi nella Pfm, con cui tornarono assieme a De André per una storica tournée del 1979. Di recente la Pfm ha omaggiato Faber con il disco/dvd dal vivo 'Pfm canta De André', ed ora sta girando la penisola facendone rivivere la poesia. Ed a Vicenza, in piazza dei Signori, il 2 giugno la Pfm (ora composta da Mussida, Di Cioccio e Patrick Dijvas, nel ’79 già nella band) chiuderà il Festival Biblico (quest’anno dedicato al tema I volti delle Scritture e che si aprirà il 29 maggio) proprio con l’inedita ripresa dal vivo de La Buona Novella, in una serata che vedrà intervenire anche il giornalista Stefano Ferrio e il teologo Dario Vivian. «Ricordare Fabrizio - dice Mussida - è una sfida a tempi che fanno temere che l’uomo non abbia senso. Lui invece costringeva ad affrontare temi che ci evitano di scivolare nel nichilismo per ridare speranze all’essere uomini. Farlo parlare crediamo sia una responsabilità di chi l’ha conosciuto. Poi ognuno di noi tre ne porta la propria testimonianza. Ed io, se vuole, posso darle la mia». Come arrivaste a partecipare a "La Buona Novella"? «All’epoca suonavamo nei dischi di tanti, avendo ampio repertorio e linguaggi moderni. Quell’lp lo arrangiò Giampiero Reverberi, che ci aveva già voluti con Battisti: fu lui a farci conoscere De André». Davanti a un disco del genere che reazioni aveste? «Beh, eravamo abituati a una canzone molto diversa. Quel disco non era etichettabile. Un giorno Fabrizio era lì col suo quaderno e gli chiedemmo di andare a cena. Volevamo capire il perché di quel lavoro. Lui ne fu entusiasta, amava conoscere le persone: anche quell’album nasceva da quella sua esigenza». E lei cosa imparò dell’uomo De André? «Cercava sempre. Aveva grande capacità di leggere le cose in una dimensione spirituale, coinvolgente, anticipatrice. Come tutti immerso nella fatica del vivere, nell’arte faceva uscire la sua profondità». Alla fine vi spiegò il perché de "La Buona Novella"? «Stava nella sua sete di capire le cose che contano. Considerava Cristo rivoluzionario, gli piaceva l’idea che in Lui si collegassero uomo e Assoluto. Ha sempre cercato di incontrare Dio anche quando ci giocava: e quell’lp fu il punto più alto della sua ricerca». Con quali tematiche base? «Direi due. Il ruolo unico della donna nella vicenda dell’umanità, innanzitutto: nell’album ci sono cinque brani su Maria. E poi la condizione stessa dell’uomo, nonché la sua voglia di amore. Le ultime parole del Testamento di Tito ('Nella pietà che non cede al rancore / Madre, ho imparato l’amore', dette da uno dei ladroni in croce, nda) sono esplicite». Oggi, 2009, la Pfm come affronta "La Buona Novella"? «Per noi tre essere musicisti significa anche dare immagini ad un racconto. I concetti racchiudono grande complessità di emozioni, che la musica può far esplodere ben al di là dei generi. Per farle un esempio, Via della Croce proveremo a strapparla alla sua ripetitività per sottolinearne la portata di racconto quasi filmico. Sul cui schermo si susseguono la cattiveria dei farisei, il dolore delle madri, le paure degli apostoli, l’indifferenza dei romani… E’ dura, ma il nostro contributo sarà proprio sottolineare con la musica ogni passaggio del testo». Lei vede insomma un senso etico nella musica in sé? «Sì. Se ci pensa è la storia della mia vita. Quando scrissi Impressioni di settembre per la Pfm volevo proprio parlare della libertà e della gioia di vivere tramite le sole note. Infatti fu la prima canzone italiana con inciso strumentale, non cantato». Dopo Vicenza 'La Buona Novella' vivrà ancora? «Me lo auguro. La gente, lo vediamo in questo tour di omaggio a Fabrizio, ha bisogno di pensare». E secondo lei De André in questo lavoro verso che approdo portava il pensiero? Speranza o dubbio? «Fabrizio era un dubbioso con fede, potrei dirle. Ascolti gli intercalari dell’ultimo brano, Laudate hominem: 'Non voglio pensarti figlio di Dio / Ma figlio dell’uomo, fratello anche mio'. E poi: 'Non posso pensarti figlio di Dio…', infine 'No, non devo pensarti figlio di Dio'… Un autocostringersi. Alla fine voleva la rivoluzione dell’amore, ci credeva». E oggi la gente riascoltandolo da che parte penderà? «Posso solo dirle che sento più che mai necessario sollevare il tema del senso religioso dell’uomo. La nostra società ci spinge spesso a chiederci se l’uomo abbia senso, ed è un dubbio legittimo. Ma credo che siamo in tanti, come Fabrizio, a pensare che l’uomo vada redento, non distrutto. E la rivoluzione di Cristo va esattamente in questa direzione».
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