Lo scrittore Colum McCann - .
Colum McCann, scrittore irlandese da anni residente a New York, è stato ricevuto ieri da Papa Francesco in udienza privata insieme a Rami Elhanan e Bassam Aramin, il primo israeliano il secondo palestinese, due padri che hanno perso le loro figlie nel conflitto in Medio Oriente, e che portano avanti un messaggio di pace e riconciliazione. La loro storia è diventata Apeirogon (Feltrinelli), romanzo vincitore nel 2022 del Premio Terzani e che è stata anche al centro di un incontro al recente Meeting di Rimini. Insieme a loro Francesco, che aveva già incontrato Elhanan e Aramin durante un’udienza generale a marzo, ha conversato con Nadine Quomsieh, segretaria generale del Parents Circle, l’associazione di cui i due padri fanno parte e che diffonde in Israele e nei Territori palestinesi un messaggio di mutuo rispetto tra i due popoli in conflitto, coinvolgendo oltre 700 genitori – ebrei, palestinesi, cristiani e musulmani – che hanno perso un figlio in guerra.
«Mi sono tenuto fuori da questo libro. Il focus era su Diane, non su di me. E il centro di questo racconto è la relazione fra perdono e compassione». Colum McCann tiene a mettere subito le cose in chiaro all’inizio della conversazione. Il suo nuovo volume, Una madre (Feltrinelli), in libreria da oggi, racconta la vicenda di Diane Foley e di suo figlio James, giornalista americano rapito e ucciso anni fa da Isis. Una storia, magnificamente raccontata, che ha a che fare con un groviglio di dimensioni umane: la disperazione per la perdita di un figlio, la rabbia per l’inoperosità delle autorità pubbliche di fronte all’incolumità di un ostaggio, la fede cristiana che plasma lo sguardo di Diane su quanto è successo nella sua vita, la riconciliazione che lei va a cercare incontrando uno degli assassini di suo figlio, decapitato e brandito come vittima sacrificale da una banda di estremisti assetati di sangue. Colum McCann racconterà Una madre al Festivaletteratura di Mantova giovedì 5 settembre con Francesca Mannocchi.
Perché ha deciso di raccontare la storia di James Foley e di sua madre Diane?
Proprio 10 anni fa come pochi giorni orsono (19 agosto, ndr) James venne ucciso da uomini dell’Isis in Siria, dove si trovava come giornalista, la sua vocazione e il suo lavoro. Lo stesso giorno, alcuni amici mi girarono sul cellulare la fotografia di James mentre si trovava come cronista in Afghanistan. In un momento di relax stava leggendo il mio romanzo Let the Great World Spin (Lascia che il mondo giri, Feltrinelli). In pratica, in una mano avevo il giornale con la fotografia di James ucciso e nell’altra il cellulare con lo scatto che lo ritraeva mentre leggeva il mio romanzo più noto. Nel giro di pochi giorni ho scritto alla madre di Foley per dirle che volevo conoscerla. Non ricevetti alcuna risposta. Due mesi dopo lessi sul New York Times che Diane Foley aveva firmato un contratto per scrivere un libro sulla vicenda del rapimento e dell’uccisione di suo figlio. “Beh, non avrà più bisogno di me”, mi son detto, sebbene nel mio studio campeggiasse ben in vista la foto di James con il mio romanzo in mano e con addosso il giubbetto antiproiettile. Ma sette anni dopo (McCann sottolinea il dato facendo il gesto del numero 7! ndr) stavo tenendo una presentazione in zoom del mio libro Apeirogon: tra i partecipanti che erano connessi vi era anche Diane. Che in seguito mi ha contattato per dirmi che non era riuscita a scrivere il suo libro, scusandosi per non aver mai risposto alla mia mail. Io le ho offerto il mio aiuto per raccontare la sua storia, non per farne un volume, non era questa subito la mia intenzione. E lei ha accettato. Così sono partito per stare due giorni con lei e suo marito John: mi hanno ospitato a casa, mi hanno dato la camera di Jim, ho parlato a lungo con loro. Diane mi ha confidato: “Mi ricordi James”. E mi raccontò che era sua intenzione incontrare uno degli uccisori di suo figlio.
E lei cosa fece?
Le dissi che, se voleva, potevo andare con lei a quell’incontro. Così fu due mesi dopo. A quel tempo non ero ancora sicuro di trarre da tutto questo un libro: volevo solo aiutare Diane a raccontare la sua storia. E lei mi ha messo al corrente di tantissime cose, alcune delle quali mi toccavano da vicino: ad esempio, dai rapiti che erano in cattività insieme a James, e che sono tornati vivi, mi ha detto di aver saputo che suo figlio e i compagni di prigionia si raccontavano i loro romanzi preferiti, nelle lunghe giornate in cui erano reclusi chissà dove. E lui riassumeva loro il mio Lascia che il mondo giri. Quindi ho accompagnato Diane in tribunale, dove ha incontrato Alexanda Kotey, il membro di Isis che venne sottoposto a processo per l’uccisione di James Foley. E mentre ci aspettava, Kotey leggeva il libro di Patrick Radden Keefe, Non dire niente (Mondadori), su una vicenda dell’Irlanda del Nord. E in copertina vi era una citazione del sottoscritto. La seconda volta che andammo in tribunale Kotey aveva in mano il testo Fine missione (Einaudi) di Phil Klay, ex marine e mio studente. Mi sono sentito quasi chiamato.
Chi è diventata per lei Diane Foley?
Diane è per me un’amica, in un certo senso una madre e una sorella. Di lei mi ha colpito la tenacia nel non mollare mai il suo intento: andare a fondo nella vicenda di suo figlio e nell’essere convinta della bontà dell’idea di conoscere i suoi uccisori, fino ad arrivare a perdonarli. Quello che ha fatto, nel secondo e al momento ultimo incontro – la stretta di mano con Kotey – non mi ha sorpreso, me lo sentivo che sarebbe andata a finire così. Però vedere quel gesto, lì, dal vivo, è stato qualcosa di stupendo. Credo che sia stato vedere l’accadimento di un gesto di fede, una fede articolata nella vita.
Diane Foley manifesta, nel libro, un attaccamento molto vivo alla fede cristiana. Da giovane, racconta, pensava quasi di farsi suora. La preghiera accompagna le sue giornate. Si sente mossa dallo Spirito Santo, in alcune scelte. Una persona per cui la fede non è qualcosa di rituale ma qualcosa di esistenziale, di personale…
Nel libro, quasi da ogni pagina, traspare la fede cristiana convinta e matura di Diane Foley. Lei la racconta con grande pudore, rispetto e partecipazione. Ho cercato, nella narrazione, di articolare questa sua dimensione essenziale, senza scadere nel dogmatismo o nella teologia, anche se non è stato facile. Il sentimento della fede di Diane Foley colpisce veramente. La sua fede cristiana è ammirevole e notevole. Da non praticante, sono, direi, geloso di questa sua fede religiosa.
Il libro termina con una scena quasi irreale: la madre di un uomo assassinato brutalmente che stringe la mano di uno degli uccisori del proprio figlio. Il perdono è la via della giustizia?
Diane Foley ha ben chiaro in testo questo: che non si può arrivare alla giustizia attraverso la vendetta. Lei non ha chiesto all’assassinio di suo figlio James, Alexanda Kotey, di scusarsi di quanto ha fatto. Però è stata lei ad andare incontro a quell’uomo: l’ha cercato, ha voluto incontrarlo, gli ha parlato. E ricordo bene quei frangenti: quando Diane si è avvicinata a Kotey, questi, con un impercettibile gesto del capo, mi ha guardato in maniera interrogativa. Quasi che volesse conferma del dubbio se accettare o meno questa mano tesa. E poi ha stretto la mano di Diane.