giovedì 4 maggio 2017
Secondo il teologo l’incontro fra le due culture è esplicabile nel dialogo a distanza fra Kierkegaard e Sankara. Le lezioni alla Lateranense fra 1962 e 1963
Il sacerdote e filosofo Raimon Panikkar

Il sacerdote e filosofo Raimon Panikkar

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Nell’anno accademico 1962/1963 Raimon Panikkar, il teologo del dialogo, morto nel 2010, tenne un corso alla Lateranense. Nell’università del papa, il sacerdote cattolico, figlio di un indiano hindu e di una catalana cristiana, metteva a confronto cristianesimo e induismo, in un momento nevralgico della loro storia. «Sorge spontanea la domanda se la cultura occidentale non sia per caso ammalata, [...], chiusa com’è da duemila anni in schemi […] che rischiano di soffocarla; […], e se non possa essere rinnovata o salvata addirittura dal contatto con qualche altra cultura», affermava all’inizio del corso Panikkar. E aggiungeva: «D’altra parte, anche la cultura indiana si sente vecchia e si domanda se nell’inevitabile scontro con l’Occidente, che del resto è già in atto, essa non sia destinata a sparire [...]; se nella sua affannata rincorsa verso la tecnologia e l’occidentalizzazione essa non finisca per perdere l’essenza più intima e vitale di tutta la sua struttura». Da qui l’utilità di un confronto fra le due culture attraverso Kierkegaard e Sankara, prototipi delle due mentalità, l’una caratterizzata dal primato del principio di non contraddizione, l’altra dal primato del principio di identità, con i due simboli (il filosofo danese della prima metà dell’800, e l’indiano della tradizione vedantica del VII- VIII secolo) accomunati dal loro vivere in tempi di decadenza religiosa e, per questo, da aneliti alla verità.

Il primo in lotta con la cristianità edulcorata dell’Europa e il secondo con l’espansione del buddhismo e del jainismo. Il primo 'soggettivo', fisso su problemi in funzione di sé, sul bene dell’individuo; il secondo 'oggettivo', rivolto alla verità assoluta, come fatto che ha in sé il suo valore reale. Il confronto si ritrova ora in Kierkegaard e Sankara. La fede e l’etica nel cristianesimo e nell’induismo (a cura di Milena Carrara Pavan; Jaca Book, pagine 112, euro 16,00) che presenta la trascrizione del corso, gli schemi usati da Panikkar come canovaccio delle lezioni, e una postfazione di Paulo Barone. Un confronto che non nasconde limiti: poco contando la dialettica del principio di non contraddizione nella relazione 'Essere ed esseri', non applicabile ai problemi pertinenti l’Infinito. Problemi però che l’India considera capitali nella sua relazione con l’Assoluto.

Nonostante limiti e problemi, nel segno di convergenze senza confusioni, il 'corso' panikkariano insiste sull’interazione reciproca Occidente e Oriente, dalla quale Cristianesimo e Induismo devono uscire trasformati, attingendo ciascuno dall’altro elementi di rinnovamento. Secondo Panikkar che alla fine del 'corso' esemplificherà il confronto nella figura della 'palafitta' (di cui Kierkegaard e Sankara sarebbero i primi due legni di appoggio): «Non è detto che il cristianesimo o la filosofia e la cultura occidentali non possano offrire all’India, che teme di essere schiacciata dall’incalzare dei tempi nuovi, un punto d’incontro per rinnovare la sua spiritualità» e d’altra parte «non è detto nemmeno che l’antica spiritualità hindi non possa fornire all’Occidente, anche cristiano, quell’ossigeno di cui necessita per continuare a vivere». Insomma un incontro (ma anche uno scontro dialettico) che può fecondare il presente.

Certo, rispetto all’opera complessiva di Panikkar queste pagine rappresentano qualcosa di residuale e lacunoso, e tuttavia come osserva nella postfazione Paulo Barone per quanti vi si accostano più o meno in familiarità con l’autore, è impossibile rimanere fermi nel perimetro di lettura tanti sono i rimandi, gli accenni, le anticipazioni contenute. Al contempo, viceversa, anche chi si limitasse a questa sola lettura, ignaro di altri scritti dell’autore vi troverebbe tutte le indicazioni per comprendere il nucleo delle questioni poste da Panikkar. Leitmotiv che attraversa queste pagine è il dato che per Panikkar «nessuna cultura, religione o tradizione può risolvere isolatamente i problemi del mondo». Inoltre si sgretolano qui i luoghi comuni sulla distinzione tra Oriente e Occidente: non si tratta più a ben vedere di «due categorie geografiche (la terra è rotonda), né storiche (il destino storico dell’Oriente si gioca in Occidente), né culturali (tutto il mondo è paese: superstizioni, logiche, misticismi)».

Questo perché «in ogni uomo e in ogni società vi è un oriente, un’origine, una luce mattutina e un occidente, un crepuscolo, una luce vespertina». Una riflessione quella panikkariana tutt’altro che oggettiva, avendo egli incontrato l’Oriente provenendo dall’Occidente cristiano (direzione evidente in questo libro). Ciò non toglie che, ai suoi occhi, resti aperta la possibilità che nel tempo di crisi che lega Kierkegaard a Sankara si creino nuove armonie, preludi al contatto con l’infinità misteriosa loro sottesa. Nel frattempo, come si legge nello stralcio in questa pagina, l’invito per cristiani e hindi è quello di avvicinare le fiaccole del loro credo: prima che il fuoco si spenga.

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