sabato 19 aprile 2025
Sotto canestro c'è tanta spiritualità, dai campioni ai coach. Ecco chi ha il dono della fede tra i protagonisti del campionato più ricco del mondo: al via i playoff, con Boston ancora favorita
Segno della croce, salmi, preghiere: i fuoriclasse dell'anima giocano a basket

Ansa

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Portava gli occhiali e anche di quelli spessi, ma il canestro lo vedeva benissimo: George Mikan è stata la prima superstar del campionato dei sogni della Nba. Il 1° giugno saranno passati vent’anni dalla sua scomparsa, ma indelebile rimarrà il suo nome nella storia del basket. Sette titoli, dominatore già nelle leghe precedenti alla stessa Nba, con lui i Lakers divennero la prima dinastia a mettere in bacheca cinque titoli in sei stagioni tra il 1949 e il 1954. E l’occhialuto fuoriclasse contribuì alla leggenda del team quando ancora giocavano a Minneapolis (non ancora a Los Angeles). Figlio di emigrati, papà croato e mamma lituana, aveva maturato dai suoi genitori una solida fede cattolica. Sognava di diventare prete, ma devoto lo rimase sempre, anche in campo: famoso il suo segno della croce prima di ogni tiro libero. Un gesto per cui veniva anche sbeffeggiato ma “Mr. Basketball”, così come fu ribattezzato, lo continuò a fare sempre con grande orgoglio.

Dall’epopea di un pioniere agli attuali assi dei parquet statunitensi sono ancora in molti ad alzare lo sguardo oltre il canestro. Anche tra quelli che da oggi daranno vita alla battaglia finale per la conquista dell’anello di campioni Nba. Scattano i playoff, la faccenda si fa seria e allora, come spesso la vita insegna, non si può fare affidamento soltanto sulle proprie forze. Lo sanno bene i Boston Celtics, detentori del titolo, che l’anno scorso hanno raggiunto la vetta solitaria nell’albo d’oro con 18 anelli (superando i Lakers). Un trionfo storico, ma le prime parole di coach Mazzulla col trofeo in mano sono state: «Lasciatemi innanzitutto ringraziare Dio». L’allenatore, che ha sempre ribadito di aver trovato equilibrio nella sua vita grazie alla fede cattolica, ha poi continuato: «Essere il coach di questa squadra è una benedizione. Non lo merito, ma per grazia sono qui». Dello stesso avviso la stella dei Celtics, Jayson Tatum, cristiano evangelico: «Prima di tutto, Dio è il più grande. Non perché abbiamo vinto, ma perché mi ha messo nelle condizioni di massimizzare le mie capacità, quelle che Dio mi ha donato».

Quanto sia importante la sfera spirituale, anche per uno sportivo milionario, lo dimostra il successo dei “cappellani” della Nba. Una storia che risale addirittura agli anni ‘70 quando alcuni giocatori dei Philadelphia 76ers tra cui Julius Erving, il leggendario “Doctor J” chiesero uno spazio e una guida per studiare la Bibbia prima di ogni partita. La loro richiesta fu accolta e il loro esempio fu subito seguito da altre squadre. Una figura diffusa ora anche in altri sport professionistici Usa, come il baseball (Mlb) o il football americano (Nfl) ma nel basket Nba oggi è così radicata che ogni team ne ha uno o più di uno. Una vera organizzazione, con un sito di riferimento (probasketballchaplains.org) e una presenza costante anche negli eventi più importanti come l’All Star Game. Si tratta di pastori evangelici che svolgono la loro funzione spesso anche in maniera volontaria. Earl Smith cappellano dei Golden State Warriors spiega: «I giocatori vengono da noi perché sanno disperatamente di aver bisogno di cose che il denaro non può comprare. Hanno bisogno di speranza, di forza e di verità». In genere questi momenti di raccoglimento si tengono un’ora prima di ogni partita, durano circa 15 minuti e sono aperti a giocatori e allenatori di entrambe le squadre e di ogni confessione. Significativa la testimonianza di un cestista cattolico come Cameron Johnson dei Brooklyn Nets: «Un’esperienza fantastica», ha detto, spiegando che è stata decisiva per accrescere la sua fede anche perché raramente ha la domenica libera per andare in chiesa. Johnson che a lungo ha indossato il numero 23 in omaggio a Michael Jordan, ma soprattutto al capitolo preferito della Bibbia, il Salmo 23, ha aggiunto: «Evidenzio i passi nella mia Bibbia e li rileggo. Mi mantiene davvero immerso nella Parola quando la vita attorno ad essa è sempre così frenetica».

Una preghiera pre-partita insieme col pubblico è quella che propongono da quasi vent’anni i Thunder di Oklahoma City. È l’unica franchigia del campionato Nba a farlo ma anche l’unica tra tutti gli altri sport professionistici americani. Un’iniziativa in cui un esponente a turno delle diverse religioni presenti nell’area metropolitana guida un’invocazione che mira a coinvolgere tutti gli spettatori presenti. I Thunder trascinati dal solito Shai Gilgeous-Alexander sono la grande rivelazione della stagione e potrebbero dare filo da torcere a Boston come i sorprendenti Cleveland Cavaliers. Più ardua appare l’impresa di Jokic sebbene si sia caricato sulle spalle i suoi turbolenti Denver Nuggets. Occhio ai Los Angeles Lakers della trade (lo scambio) più sconvolgente degli ultimi anni: l’arrivo dello sloveno Doncic da Dallas a formare una coppia da sogno con l’intramontabile LeBron James. A 40 anni “The King”, sempre riconoscente al collegio cattolico St.Vincent-St.Mary di Akron, sa che le battaglie si vincono innanzitutto dentro sé stessi. E del resto questo gioco è “religioso” sin dalla nascita nel 1891, visto che il suo fondatore, il professor Naismith, apparteneva alla rete educativa cristiana dell’Ymca. Tanto più vera allora appare la definizione del grande Bill Russell: «Il basket è l’unico sport che tende al cielo, una rivoluzione per chi è abituato a guardare sempre a terra».

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