venerdì 10 giugno 2022
Il 22enne arbitro gambiano Jawara è il primo migrante tesserato Aia: sei anni fa è sbarcato a Salerno dopo un viaggio in cui ha rischiato la vita: «L’Italia mi ha accolto, il mio futuro è qui»
L’arbitro Mustapha Jawara, 22 anni, arrivato dal Gambia è il primo migrante tesserato dall’Aia

L’arbitro Mustapha Jawara, 22 anni, arrivato dal Gambia è il primo migrante tesserato dall’Aia

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Il fischio d’inizio più lungo del mondo, parte dal fischietto alla bocca di un giovane gambiano che ha il sorriso splendente come il sole della sua Africa. Quel suono, risale tutto il grande fiume Gambia che taglia il Paese di Mustapha, passa il confine ed entra in Senegal, attraversa il deserto sahariano e rimbalza come un pallone da calcio su un campetto della provincia di Salerno. Quel fischio è partito da Sanunding (Gambia). È lì, in quel villaggio remoto dell’Africa occidentale che 22 anni fa è nato l’arbitro Mustapha Jawara. La sua storia è simile a quella di migliaia di giovani connazionali in fuga: ragazzi fuori dal Gambia, per colpa degli scontri etnici-religiosi, per la miseria delle loro famiglie e quindi la fisiologica ricerca di qualcosa di meglio che li costringe ad avventurarsi per la rotta impervia e incerta del “backway”. Un atto di coraggio o una follia, dipende dalla prospettiva, il viaggio compiuto da adolescenti (la maggioranza della popolazione gambiana - 2milioni e mezzo di abitanti - è composta da under 20) che, stanchi di stare al “buio” (l’elettricità nelle zone rurali del Paese è un privilegio che tocca appena il 21% dei residenti), tentano di spingersi fin dove è possibile ammirare le luci sfavillanti delle metropoli e le terre d’Europa. «Sono andato via dal mio villaggio, fatto di quattro strade, perché là un futuro non ce l’avevo. Volevo fare la scuola di inglese, ma mio padre non era d’accordo, così mi hanno mandato in un altro paese e ho frequentato la scuola coranica». Seguendo i precetti di Maometto e fedele ogni giorno al suo Dio, Allah, Mustapha a 14 anni si è spinto fino a Bamako, la capitale del Mali. «Lì ho imparato a fare l’elettricista, ma per mangiare procuravo i clienti all’autista per cui lavoravo. Stipendio? Una scodella di riso e 10 centesimi». Con un sacchetto di monete risparmiate, un giorno ha deciso che era tempo di rimettersi in cammino. Ma per arrivare fino al Vecchio Continente bisogna per forza passare dalla Libia. «Su una macchina, ammassati come bestie, saremo stati una ventina con i piedi di qualcuno nella mia bocca e viceversa. Tre settimane così, attraversando il deserto per poi arrivare in Libia dove ho rischiato davvero tantissimo...».

Qui per un attimo il sorriso di Mustapha si spegne e il ricordo si fa cupo: «A volte steso sul letto, ad occhi aperti, mi capita di ripensare a quei giorni: sei lunghi mesi rinchiuso in una cella, mi sembrava di essere finito all’inferno ». La salvezza paradisiaca per molti è il barcone: «Tu paghi e speri di arrivare prima o poi in qualche porto, Io ci sono riuscito e ringrazio Allah. Tanti non ce l’hanno fatta. Un ragazzo che era accanto a me in quella barca che era “gonfia” di uomini donne e bambini, non so se si è addormentato o si è sentito male, fatto sta che l’ho visto scivolare in acqua e non avevo la forza per riacciuffarlo... Stretti come sardine, non mi potevo muovere: ho guardato il pilota e quello con lo sguardo mi ha detto, “non possiamo farci niente”... Chissà quanti corpi ci sono laggiù, in fondo al mare? ». È una domanda ricorrente nella testa di questo ragazzo che grazie all’intervento di una nave della Marina Militare è riuscito a scampare all’inabissamento e ad attraccare sano e salvo al porto di Salerno. A 16 anni compiuti, l’hanno accolto nel piccolo centro di Polla, comune di Vallo di Diano, e qui è cominciata la seconda vita di Mustapha. «Ho studiato l’italiano e mi sono iscritto all’Istituto Alberghiero fino al terzo superiore. Ma i libri e il cameriere non è mestiere per me, ho preferito fare l’elettricista. Un lavoro che mi permette di portare avanti la mia grande passione, che avevo già da bambino quando ero in Gambia».

La passione per il calcio, ma non quello giocato, bensì arbitrato. «Barrow e Jawara, i due campioni gambiani del Bologna, ma anche Darboe della Roma, sono la dimostrazione che il mio Paese è una palestra per tanti talenti che, spesso riescono a giocarsela nei maggiori campionati europei. Io non sono mai stato un buon calciatore e quando guardavo le partite alla tv, più che il gesto del fuoriclasse mi ha sempre attratto quello che faceva l’arbitro». Una vocazione che si è finalmente realizzata, e a spingerlo in campo è stato l’amico Massimo Manzolillo, un collaboratore della Sezione di Sala Consilina che agli inizi è stato un po’ il tutor di Mustapha. Pardon, ora è il signor Mustapha Jawara, Sezione di Sala Consilina, “il primo migrante tesserato Aia”. Esordio nel 2021 a Palomonte in una gara del torneo esordienti. «Emozione? Un po’ di pensieri prima di arrivare al campo, ma poi una volta fischiato l’inizio non ho pensato a niente e mi sono solo divertito. Quest’anno ho arbitrato anche partite di Seconda categoria: riesco ad essere sempre molto tranquillo e concentrato sul gioco, il resto non conta». Conferma Alberto Ramaglia, Presidente del Comitato Regionale Arbitri Campania: «La forza di Mustapha sta proprio nella capacità di controllare al meglio le proprie emozioni e questo è un segno distintivo del buon direttore di gara. Prende le decisioni sempre con estrema lucidità, lo fa con rapidità e ha dimostrato sin qui di possedere una personalità spiccata, anche sul piano della comunicazione, fuori e dentro il campo, che gli è valsa il massimo rispetto da parte dei ragazzi e di tutti i dirigenti delle società che fino ad ora ha arbitrato».

Niente episodi di razzismo, tipici dei campi di calcio, specie quelli di periferia poco illuminati dalle telecamere, ma anzi la scoperta di un grande spirito di accoglienza, a cominciare dalla comunità di Vallo di Diano dove Mustapha vive e lavora. «Nessuno si è mai permesso di mancarmi di rispetto o di fare allusioni per il colore della mia pelle. A Polla poi, tutti mi vogliono bene e c’è sempre stato qualcuno disponibile ad aiutarmi in caso di bisogno. Fin dal primo giorno tutti mi hanno fatto sentire come a casa, anzi meglio», sorride Mustpaha. A casa sua, in Gambia, non è più tornato: «Al villaggio ho lasciato un fratello e una sorella più grandi che però non hanno intenzione di seguirmi qui in Italia. I miei genitori li sento al telefono... Certo un giorno mi piacerebbe tornare a salutarli, ma sento che la mia vita e il mio futuro è qui e nel mondo del calcio italiano». Un mondo che lo appassiona e per cui fa volentieri i dovuti sacrifici settimanali: «Dopo il lavoro vado a correre. L’Aia mi invia WhatsApp con i programmi di allenamento personalizzati: tipo, fare i 50 metri in 40 secondi, eseguire le ripetute necessarie a stare sempre in forma. Poi passo molto tempo a rivedere i filmati delle partite, studio e imparo continuamente dalle riunioni tenute nella mia Sezione Aia dagli arbitri più esperti. Cerco di migliorarmi gara dopo gara e mi dà tanta forza la fiducia che avverto da parte dei dirigenti arbitrali, degli osservatori e anche delle persone che su facebook mi incitano ad andare avanti... Sui social mi sono arrivati tanti messaggi e i più graditi sono stati i complimenti di ragazzi del Senegal che mi scrivono: “Da giovani africani siamo fieri di quello che sto facendo” ».

E tanto ha fatto e sta facendo anche l’Aia sia a livello nazionale che locale per i ragazzi come Mustapha, dando loro la possibilità di offrirgli un tetto e un lavoro, inserendoli in fretta nel tessuto sociale, grazie alla pratica sportiva. «Nelle nostre 17 sezioni della Campania, abbiamo attivato progetti di “inclusione arbitrale” con ragazzi africani, ma anche provenienti dal-l’Est e ora anche quelli in fuga dalla guerra russo-ucraina – spiega Ramaglia – . Il nostro obiettivo non è solo insegnargli ad arbitrare una partita di calcio, ma riuscire a creare momenti di aggregazione nelle nostre realtà locali che vanno ben oltre i 90 minuti di gioco». Ora i campionati sono fermi, ma Mustapha continua a correre con la sua falcata da gazzella elegante. Prepara già la prossima stagione, ma soprattutto insegue il suo sogno: «Ho lottato tanto per arrivare sin qui e voglio continuare a dare il massimo per riuscire un giorno ad arbitrare nel calcio professionistico. Il mio sogno più grande è quello di poter tornare in Gambia dopo aver arbitrato la finale di Coppa d’Africa. Se questo accadrà, allora vorrà dire che tante cose sono cambiate, e in meglio... certo, con l’aiuto di Dio».

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