martedì 25 maggio 2010
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In Italia è scoppiata una guerra tra discografici e radio. Oggetto del contendere sono i mancati pagamenti dei diritti musicali delle emittenti alle case discografiche che ne sono proprietarie. «Le radio non vogliono pagare e ci stanno ricattando: minacciano di non trasmettere più brani dei nuovi artisti» hanno strillato ieri i discografici.In un mercato dove la musica si vende sempre meno (l’Italia dal 2008 al 2009 con 181,5 milioni di euro è scesa al nono posto nel mondo, perdendo il 17,4 %) ci sono due strade: o si abbassano i prezzi (come ha appena annunciato Universal in America che offrirà i suoi cd a 10 dollari, meno di 8 euro) o si cerca di reperire i soldi altrove. Per esempio, facendo pagare, tutti coloro che in un modo o nell’altro "usano" la musica: dai bar che la tengono in sottofondo alle radio che la trasmettono 24 ore al giorno o quasi.Per questo Scf, la società che ha il compito di raccogliere i diritti sulla musica registrata, chiede che la quota dovuta dalle radio alla discografia passi «al 2% senza sconti» e che vengano saldati gli arretrati: «ci devono quasi tre anni, ossia più di 5 milioni di euro». Parliamo di 1 milione 700 mila euro l’anno. Poco più di 150 mila euro per ogni grande casa discografica. Apparentemente un’inezia.Già: cosa se ne fanno Sony, Warner o Universal di 150 mila euro, se questo li porta a citare in giudizio i grandi network nazionali (RTL 102.5, Radio 105, Rds, Radio Monte Carlo, Virgin Radio, Radio DeeJay, Radio Capital, M2O, Radio 101 e Radio Italia) arrivando così a rompere i rapporti con «dei partner commerciali privilegiati»? Chiariamo subito che le radio negano di non trasmettere più le novità discografiche, penalizzando così l’industria. In più rimandano al mittente tutte le accuse (vedi box a lato) sostenendo che è Scf «ad avere rotto per ben tre volte le trattative».Secondo il neopresidente di Scf Saverio Lupica, la discografia chiede solo «un ragionevole adeguamento dei compensi alle medie europee. In Spagna e Grecia le radio pagano ai discografici il 2% del fatturato lordo, in Francia e Gran Bretagna il 4% e in Germania il 5,6%».In gioco più che una percentuale c’è soprattutto un principio: il fatto che chiunque «deve» pagare la musica. E così che alla fine i conti tornano. Non a caso il bilancio 2009 di Scf si è chiuso con un incasso di 37,2 milioni di euro grazie agli incrementi registrati sul fronte dei diritti versati da alberghi, bar e ristoranti (+ 6 %), da radio e tv (+ 5 %), dai new media (+ 11 %) e soprattutto dai negozi (+ 88 %).Peccato che alcuni discografici che ora strepitano contro i network radiofonici, negli anni Ottanta e Novanta si siano inventati con loro accordi folli. Convinti che solo le radio fanno vendere i dischi, hanno ceduto a rotazione alle emittenti punti di edizione (cioè percentuali dei diritti d’autore) sulle canzoni che volevano lanciare oppure hanno pagato profumate campagne pubblicitarie su questo o quel disco, sperando di riceverne in cambio più passaggi del previsto.Il risultato è che da allora le radio sono diventate così ricche, che oggi il fatturato aggregato delle dieci emittenti nazionali sopraccitate è il doppio del fatturato globale dell’industria discografica italiana. Su questo, però, nessuno sembra disposto a fare convegni, proclami o soltanto ammissioni di colpa. Si battono i piedi per terra. Si chiedono al Governo aiuti e si piange per la pirateria. Ma a spingere tra il 2007 e il 2009 nel mondo ben 24 milioni di persone in meno ad acquistare musica – come ha spiegato il rapporto NPD, presentato al Digital Music Forum di New York – non è stata solo la pirateria, tanto più che in molti Paesi c’è stato un calo notevole della musica scaricata dal web dovuto alla paura di prendere virus. «Il calo delle vendite discografiche è anche dovuto al fatto che la musica digitale permette di comprare solo la canzone che piace invece di un intero album, spesso con canzoni mediocri».
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