giovedì 12 dicembre 2013
COMMENTA E CONDIVIDI
La musica, ripetono tanti, si ascolta sempre di più ma si compra sempre di meno. Qualcuno ha provato persino a disegnarne il futuro, rappresentando mondi dove sarà pagata (poco) o regalata come gadget (molta). Al Medimex di Bari e in altri consessi simili, negli ultimi giorni, c’è chi ha proposto di salvare la musica italiana «obbligando le radio a trasmettere brani dei nostri artisti e a dare spazio ai nuovi talenti». Una strada sposata dal viceministro dell’Economia e delle finanze, Stefano Fassina. L’idea, sul modello francese, è quella di stipulare un contratto con la Rai e con i maggiori network privati perché trasmettano il 40% di musica italiana ogni giorno, con un ulteriore 20% destinato alla promozione di giovani talenti. Quello che tutti fanno finta di non sapere è che non esiste l’amore “obbligato” per la musica. Non ci si appassiona a un artista per decreto. E non si comprano i cd perché obbligati in qualche modo.Se parlate con qualunque ragazzo, vi dirà che non compra più musica, ma la prende “in prestito” (senza scaricarla) da servizi come Spotify e Dezeer. Moltissimi lo fanno attraverso YouTube, dove le canzoni si ascoltano e si vedono. Come avvenne per la tv con l’arrivo dei telecomandi, siamo entrati nell’era dello zapping musicale. Invece di ascoltare canzoni per intero, si salta da un brano all’altro, senza aspettare che sia finito. Come bambini in un negozio di giocattoli che toccano tutto senza sapere bene cosa scegliere. L’ascolto di un intero album è ormai azione riservata a pochi. E a momenti speciali, come la musica in cuffia mentre si viaggia in metropolitana o in treno.Poi c’è la pirateria. Con tutto ciò che ne consegue. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: le vendite tradizionali (della musica, dei libri e dei giornali) perdono quota, mentre i ricavi che dovrebbero arrivare dal mondo digitale tardano. E non si sa nemmeno se mai arriveranno a colmare il divario.Restiamo alla musica. Alla loro nascita servizi come Spotify e Deezer hanno fatto gridare molti al miracolo. Si diceva: grazie a queste piattaforme che offrono musica in streaming (cioè da ascoltare senza bisogno di scaricarla) la pirateria finirà. E tutti pagheranno. Poco ma pagheranno. Col risultato – credevano molti – di salvare le finanze delle case discografiche e degli artisti. Perché, per fare un esempio, se in Italia si riuscisse a far pagare dieci euro al mese a cinque milioni di persone, ogni anno ci sarebbero seicento milioni di euro da dividersi.Peccato che, dopo le proteste di artisti come David Byrne, Spotify ha dovuto aprire le porte dei propri server, rendendo pubblici i conti dell’azienda. Si scopre così che Spotify trattiene circa il 30% dei ricavi, girando il 70% ai detentori dei diritti sui brani. Quel 70% viene poi ripartito tra l’editore e l’artista, in base agli accordi che intercorrono tra questi. Per ogni brano cliccato Spotify paga tra 0,006 e 0,0084 dollari. Il sito Rock.it ha provato a fare qualche conto in tasca ai musicisti italiani, «prendendo 0,007 dollari come cifra media e andando a cercare quanti play hanno fatto registrare le canzoni più ascoltate di alcuni artisti». I risultati sono agghiaccianti: al primo posto c’è il rapper Fedez con Cigno nero, il quale – a fronte di 1.032.931 clic – ha incassato 5.322 euro. Un flop (economico) pazzesco. Che ha fatto incassare a Jovanotti (540.857 clic) solo 2.786 euro. A Franco Battiato con Voglio vederti danzare (494.557 clic) 2.548 euro.Persino Albachiara di Vasco Rossi (ascoltata 450.796 volte) ha generato guadagni ridicoli: 2.323 euro. Come Certe notti  di Ligabue (353.655 ascoltatori) per un incasso di 1.822 euro. Vannbo male – in quanto a guadagni – anche i giovani Emma (Dimentico tutto, 351.541 ascolti per 1.811 euro), Moreno (Che confusione: 340.464 clic, per 1.754 euro) e Clementino (O’ vient: 306.329 ascolti e un incasso di 1.578 euro). Negramaro, Baustelle e Afterhours viaggiano tra i 500 e i 900 euro di incassi, mentre i giovani guadagnano con la loro musica meno di 200 euro a testa.Capirete che con questi numeri non si va da nessuna parte. Tanto più che Deezer e YouTube non generano cifre maggiori. Sarà anche vero che registrare un album oggi costa meno che in passato, ma siamo molto lontani da quella che una volta si chiamava “giusta mercede”. Secondo uno studio dell’Osservatorio europeo sulle violazioni dei diritti di proprietà, commissionato dall’Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (Uami), siamo seduti su una polveriera: le violazioni dei copyright e i bassi introiti derivanti dai nuovi modelli digitali potrebbero mettere in crisi 76 milioni di posti di lavoro in tutta Europa. Pensare di mettere un argine a questa situazione obbligando le radio a trasmettere più musica nostrana è come cercare di svuotare il mare con un secchiello. Qualcosa fa, ma è maledettamente poco.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: