martedì 11 gennaio 2011
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Lo vedi nel phone center, nel negozio etnico, nella macelleria halal non distante da casa tua, nel marocchino che a un’ora che lui sa s’inginocchia su un cartone rivolto alla Mecca. L’islam tra di noi è questo. Anche questo. Non solo una religione, ma un fenomeno sociale difficile, spinoso. Come tale lo analizza Stefano Allievi, docente di Sociologia all’Università di Padova in La guerra delle moschee (Marsilio, pagine 176, euro 12). Un libro dove la mappatura rigorosa dei luoghi di culto islamici subito ci dice che in un’Europa con ormai 23 milioni di musulmani, le moschee sono undicimila (2.600 in Germania, 2.100 in Francia, 764 in Italia, più di mille in Gran Bretagna, 1.867 in Bosnia, eccetera). Naturalmente, quando si dice moschea non si dice solo tempio, ma luogo dove i musulmani si ritrovano principalmente a pregare. E che può cominciare da un tappeto, continuare con una stanza, proseguire con la musalla (sala di preghiera) e concludersi con la moschea vera e propria. Che non è solo luogo religioso, per come lo intendono i cristiani, ma anche luogo politico-organizzativo.Di queste, moschee ad hoc – costruite per essere tali – se ne contano quasi 200 in Francia, 100 nei Paesi Bassi, una settantina in Germania, ma 300 (su 400) in Grecia e, in gran parte ricostruite dopo la guerra, ben 1.472 (su 1.867) in Bosnia, dove esiste una popolazione islamica autoctona. In Italia, con un milione e trecentomila musulmani (il 2,2% dei residenti, contro una media europea del 3,77%), le moschee ad hoc sono appena tre: una a Catania, non più utilizzata, una a Milano-Segrate e la terza, inaugurata nel 1995 come grande centro islamico culturale, a Monte Antenne a Roma. 761 moschee italiane altro dunque non sono che sale, stanze, spazi ricavati un po’ dovunque, in capannoni, magazzini, scantinati, negozi. Attualmente una moschea è in allestimento a Colle Val d’Elsa, in Toscana, mentre altre sono in fase progettuale o a inizio lavori in diverse nostre città senza che se ne venga a capo.Si ripete – è vero – che una città come Milano dovrebbe avere una grande moschea al pari di altre metropoli europee proprio per dimostrare, anche con attività collaterali che ad essa si legherebbero (incontri, dibattiti, attività culturali e cerimonie collettive), la propria caratura internazionale. Ma per Allievi il sospetto e a volte l’ostilità verso l’islam, soprattutto nel Nord Italia, impedisce la costruzione di mosquées cathédrales. Sicché, per evitare contrasti, si ricorre un po’ a tutto, per esempio al «mimetismo». Si dice sì alla moschea purché sia poco vistosa: niente cupole, mezzelune o segni e fregi che ricordino l’orientalismo architettonico. E no a quel simbolo di potenza, grandezza e forza che è il minareto. Perché poi sono stati proprio i minareti a innescare operazioni (anche legislative) in odore di anti-islamicità. È successo in Carinzia nel 2008 con la loro messa al bando, e in Svizzera, nel novembre del 2009, quando queste 'torri di dominio' sono state sottoposte a un referendum che le ha bandite con il 57% dei voti in 22 cantoni su 26. Il tutto a dire come la 'visibilizzazione' dell’islam nello spazio pubblico europeo resti un serio problema.C’è anche, per la verità, uno spazio acustico che l’islam vorrebbe occupare con l’adhan, o appello alla preghiera, ma il diniego è stato nella fattispecie totale anche là dove si era dato disco verde alla costruzione di moschee. Insomma non si può dire che l’islam trovi in Europa delle autostrade su cui correre indisturbato. Allievi ci informa che i partiti anti-islamici europei sono a tal punto legati tra di loro da formare una sorta di «internazionale dell’islamofobia». E comunque, a livello di sensibilità popolare, due sembrano essere le maggiori ragioni di ostilità alla moschea: la perdita di valore delle case intorno e la paura di aumento della delinquenza. Più la sempre presente sindrome Nimby (Not in my backyard, «non nel mio cortile»).Sulle sensibilità popolari soffia peraltro il vento della politica che, per quanto riguarda l’Italia, trova nella Lega Nord il suo mantice maggiore. E poi, sulla combustione del fenomeno, molto hanno influito i mass media, e qui Allievi non è tenero con Oriana Fallaci. Si chiede così il sociologo dove stiamo andando e, sottolineando come il conflitto diventi più o meno duro a seconda che i musulmani godano di minori o maggiori diritti, assegna al «fattore T» (tempo) un ruolo rilevante nell’«integrazione sostanziale» dell’islam. Se poi, spostandoci negli Stati Uniti, guardiamo al recente discorso di Obama a favore della costruzione di una moschea a pochi isolati da Ground Zero in nome della libertà di religione che in America prevale su tutto, entriamo in un’altra dimensione. Auspicabile dimensione, certo, anche per l’Europa secondo Allievi, fautore di una pacifica e ragionata apertura nei confronti dell’islam. Di quello stesso islam, peraltro, che nei Paesi dove domina dovrebbe portare grande rispetto a tutte le minoranze, a cominciare da quelle cristiane, o a chi, musulmano, al cristianesimo decidesse di convertirsi. E sarebbe bello, certo, se fosse così. Ma troppi avvenimenti, alcuni anche molto dolorosi, ci dicono che non si va in questa direzione.
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